A proposito di Davis
Di Dario ArpaioNew York, 1961. I ragazzi con la chitarra si incontrano a Washington Square la domenica. A volte si vede passare Woody Guthrie. Per chi non l’avesse mai visto sarebbe sufficiente dare un’occhiata alla scritta sulla sua chitarra: “this machine kills fascists”.
Anche Pete Seeger frequenta a volte la piazza. Si suonano canzoni folk. I jazzisti le snobbano. I musicisti sono gente strana. Non è vera musica quella! Così dice John Goodman nella sequenza del viaggio in macchina da New York a Chicago che lui, nei panni di Roland Turner, suonatore di jazz ed eroinomane, divide con Llewyn Davis, il giovane sfigato cantante folk, protagonista del nuovo film dei fratelli Coen, A proposito di Davis.
Goodman lo ripete, il jazz è musica vera. Il folk è fatto di soli quattro accordi in croce, ripetuti sempre uguali, fino alla noia, da quei sudici rednecks. Ma Llewyn Davis cerca la sua strada di musicista proprio nel genere folk, che, in quei primi anni ’60, furoreggia nel Village newyorkese. Poi l’auto sulla quale i due viaggiano verso Chicago, si ferma in una stazione di rifornimento. Il grosso Goodman/Turner, reso ancora più corpulento dai Coen con un enorme cappotto, appoggiandosi claudicante su due bastoni, si dirige verso i bagni e si fa una pera.
I musicisti sono gente strana. Per i fratelli Coen è stato per così dire facile, quasi dovuto, andare a costruire un soggetto disegnando i personaggi giusti per le storie che amano raccontare, come solo loro sanno fare. Ed ecco Llewyn Davis, un altro perdente per la galleria dei Coen, uno sfigat(t)o –vedere il suo incontro con un soriano-, che passa le giornate elemosinando agli amici un divano dove dormire, cambiando sempre casa, senza un dime in tasca, per di più alle prese con un soriano che si ritrova in braccio per caso. Ed è proprio nel rapporto con il gattone rosso che Llewyn mostra, per una frazione, se stesso. Per il resto appare uno scroccone perditempo, che non riesce a concludere nulla dopo il suicidio del suo partner con il quale aveva inciso un primo e unico buon pezzo. Mette incinta la ragazza di un amico. Viene picchiato dal marito di una cantante dilettante mentre tentava di esibirsi sul palco del solito pub e che Llewyn non aveva esitato a sfottere per la sua canzone da dilettante scadente…
Uno sfigat(t)o più che un perdente, questo L. Davis. Fugge di continuo dai suoi stessi sogni e non ha nemmeno un cappotto per ripararsi dal freddo. Intanto nel solito pub inizia a esibirsi anche un certo Robert Allen Zimmerman, del Minnesota, che non avrebbe avuto molto successo con quel nome così lungo. Meglio Bob Dylan.
Ecco in poche righe A proposito di Davis, che può essere annoverato tra i migliori film firmati dai Coen. Non è mitizzabile come Il grande Lebowski, follemente magnificamente irripetibile da ogni punto di vista lo si voglia inquadrare. Non è nato tra le pagine di un libro come quello dello straordinario Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi. Non è così pervaso di umorismo yiddish come A Serious Man, quasi autobiografico per i due fratelli che peraltro rifiutano ogni attribuzione di etichette ai loro film. Non è di genere, come lo stupendo Oscar di Jeff Bridges per Il Grinta. Loro sono i Coen e basta. Sanno fare film come pochi, coniugando vena autoriale originalissima, e forma cinematografica a volte spiazzante, dove ogni personaggio è quasi un film a se stante, a prescindere dal ruolo. Si possono amare oppure detestare i fratelli Coen. Nessuna via di mezzo. Il loro Llewyn Davis è una specie di Ulisse a new York, avrebbe affermato qualcuno? Meglio vederlo solo come uno sfigat(t)o, malinconicamente tenero codardo.
A proposito chi desiderasse conoscere meglio l’atmosfera musicale del Village newyorkese nei primi anni ’60, potrebbe leggere Manhattan Folk Story al quale gli stessi Coen si sono ispirati e scoprire chi è stato Dave Van Ronk, un bluesman con la faccia da mastino e il piglio da manovale, come lo definisce Tom Waits, citato nella quarta di copertina.
Dario Arpaio
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Caro Dario scusa se ti dò del tu, ti seguo spesso e leggo con piacere le tue recensioni. Non questa. E’ un film noiosissimo, se ne parla bene tra i critici per quel conformismo irritante che circonda alcuni autori. Qualunque cosa facciano, è un grande film. Innanzitutto è un film per metà musicale, pesante per chi non ama il folk. Il personaggio non è solo uno sfigato, è pure un po’ (tanto?) stupido. In senso letterale, uno stupido. Ora, per quanto belle e curate siano le immagini, come si può appassionarsi per un film che per metà è musicale (e tralascio le opinioni personali in merito alla musica folk) e per metà segue le (dis)avventure di uno stupido ovviamente circondato da altri stupidi?
Last but not least : lo stupido abbandona il gatto soriano su una statale e poi forse lo investe. Se il sè stesso è questo, non è solo uno stupido….