Sean Penn, Jon Krakauer e Eddie Wedder – Into the Wild
Di Dario ArpaioSi è molto parlato e scritto di questa cronaca del viaggio Into the Wild del giovane 22enne il quale, dopo aver girovagato per due anni, dalla Virginia al Messico, superando in canoa le rapide del Colorado, trova infine la morte nel profondo Nord per colpa della fame che lo porta a ingerire accidentalmente una pianta non commestibile. Ho un amico in Alaska, a Chugiak. Nella stagione fredda, quando esce di casa per le banali compere, utilizza sempre una motoslitta con quattro ruote motrici e non si separa mai dalla sua 44 Magnum per difendersi, all’occorrenza, dai grizzly o dai lupi (dice che però quando spara gli piega un po’ il gomito…). Il giovane Chris andava solo a piedi. Ebbene, per la gente del Grande Nord solo un incosciente molto, molto fortunato sarebbe riuscito a sopravvivere a un inverno all’addiaccio e certamente no, se dotato solo di un piccolo calibro 22. Quindi cosa può effettivamente aver spinto il giovane Christopher McCandless ad andare oltre il limite? Puro gusto per le sfide adrenaliniche? Tormenti esistenziali? Ricerca di vie di fuga da una società che cinicamente chiede solo di essere un perfetto consumista? Che cosa?
Nel 1996 Jon Krakauer pubblica il romanzo dal quale Sean Penn trae poi il film Into the Wild sulle vicende del giovane Chris, autosoprannominatosi Alexander Supertramp. Chi è Krakauer, un emulo dell’unico Jack Kerouac e del mito On the Road? Medita lui stesso una ricetta per una sana ribellione o per non smarrire il desiderio di libertà? Ma Krakauer è scalatore provetto: da non dimenticare la sua esperienza sul versante occidentale del Cerro Torre nelle Ande in Patagonia nel 1992, considerato una delle cime più difficili del mondo. Ha anche visto la morte in faccia in un’altra famosa esperienza sull’Everest dove alcuni suoi compagni hanno perso la vita in una bufera di neve. Dall’altro lato sappiamo di Sean Penn che è considerato personaggio scomodo, difficile, spesso antipatico, duro. Un individualista estremo avvezzo lui pure a imprese solitarie. Come per esempio quando all’indomani del tremendo uragano di New Orleans parte da solo con i suoi propri mezzi per portare soccorso ai superstiti, ma senza coordinarsi con altri, senza aggregarsi a organizzazioni umanitarie e per poco non rischia il peggio con un suo gommone trascinato malamente dalla corrente ancora impetuosa dopo la devastazione. Sicuramente Sean Penn è ben lontano dall’immaginario del gossip più becero che lo vide burrascosamente legato a Madonna e a quant’altro. Penn ha dimostrato di essere un grande interprete di personaggi tragici: ricordiamo le sue performance in Mystic River e Dead Man Walkin’, solo per citarne a caso. Infine i due, Krakauer e Penn si incontrano, come se prima o poi fosse stato inevitabile. Trascorrono insieme mesi a studiare il progetto, tempo ed esperienze per approfondire il senso della vita del giovane Chris. Perlustrano i suoi luoghi, si arrampicano sulle stesse pareti alla ricerca di quel mondo interiore, senza tempo, dove tutto il passato è in sé. Quello stesso senso di assoluto presente che respira e vive nel profondo Nord.
E alla fine concludono che non si può spiegare il perché di quella scelta dal finale disperatamente tragico. Se bisogna chiedersi prima il perché di quei 113 giorni, non si può capire. Ogni uomo cerca in sé il proprio limite, il confine, e lui solo può e deve capire come, dove e quando superarlo. Il resto non sono che illazioni, congetture oziose. Penn ci offre una storia, una lacrima e un motto d’orgoglio genuino, anche se forse troppo. Bene: sappiamola godere, in silenzio, con commossa partecipazione, cerchiamo in noi stessi delle risposte. Ognuno le può coniugare solo per sé, non ci sono sostituti per la vita.
Penn cerca una colonna sonora. Si presenta a casa del suo amico Eddie Wedder, solista dei Pearl Jam. Hanno già lavorato insieme (in Dead Man Walkin’). E quando Penn all’improvviso caracolla di nuovo nella vita di Eddie, è come se avesse sempre abitato in fondo alla via, racconta Wedder in un’intervista a Time. Entusiasta e commosso, Wedder lavora di gran lena su alcuni pezzi e nasce una splendida colonna sonora. Una riprova? Alla fine del film, un’ultima canzone sottotitolata scivola sui titoli di coda e il pubblico in sala, restà lì, mezzo in piedi, con cappotto indossato o quasi, ma nessuno si perde un verso, parole semplici, vive. Eppure Wedder chiedeva a Penn di tutto, anche della scena del grizzly, come si possa averla mai girata. E a Sean è bastato rispondere che è sufficiente dirgli ‘bravo ragazzo!’ e lo si premia con tanta crema al cioccolato…
Certo, entrare nella testa di Christopher McCandless non è cosa per tutti, è un varco difficile. Grazie a Dio è stato Sean Penn ad aprirlo per noi.
Dario Arpaio
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E’ veramente trascinante questa recensione. E’ come se l’autore ti volesse prendere per mano e condurti alla scoperta di un mondo che sembra di atri tempi, un mondo che ricorda molto “Zanna Bianca”. Ma ancor più è da ammirare il coraggio del protagonista; quel coraggio che dovremmo avere tutti noi invece di lacerarci la materia grigia in pensieri infiniti e tortuosi e per lo più senza meta.
Comunque, complimenti ancora Dario! Andrò di certo a vederlo: la curiosità è troppo grande ormai……..
grazie! ti rispondo con qualche parola di Eddie Wedder:
…”You can never know
Just where to put all your faith
And how will it grow
Gonna rise up
Burning black holes in dark memories
Gonna rise up
Turning mistakes into gold
“…
Dario.
Complimenti per la recensione, sincera e trascinante.
Un solo appunto: si scrive Vedder, non Wedder.
Ciao e ancora complimenti.
verissimo! grazie !
ciao
dario