12 di Nikita Mikhalkov

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Oltre ogni ragionevole dubbio. Questo è il principio che deve (o almeno dovrebbe) essere seguito nel giudicare la colpevolezza di chi viene accusato di un crimine. Da quì prende il via 12, la nuova opera di Nikita Mikhalkov che rielabora un soggetto del 1957. Allora il film si intitolò La Parola ai Giurati e il regista fu Sidney Lumet che si avvalse di un cast di tutto rispetto a partire dall’intensa interpretazione di Henry Fonda affiancato da Lee J. Cobb, Jack Warden e Martin Balsam. Anche nel remake russo tutti gli interpreti offrono una eccellente prova d’attore, veramente difficile indicare il più bravo. Tutti si confrontano in un crescendo quasi rossiniano nei dialoghi serrati voluti da Mikhalkov che è  al tempo stesso regista, produttore, sceneggiatore e interprete. 12  sono appunto i giurati che si ritirano in consiglio per deliberare su di un caso di omicidio. Un giovane ceceno viene accusato da due testimoni di avere ucciso il padre adottivo, un ex-maggiore dell’esercito russo. Il verdetto deve essere unanime: tutti devono condannare o assolvere l’imputato oltre ogni ragionevole dubbio. I 12 si riuniscono in una palestra della scuola adiacente al tribunale con le aule in ristrutturazione, forse velata allegoria della stessa giustizia. I giurati scavalcano calcinacci e scolari in ricreazione per ritrovarsi infine chiusi a chiave nella palestra per deliberare, ma tutti pensano trattarsi solo di una formalità, l’imputato in fondo è un giovane ceceno, quindi razza ritenuta inferiore a quella russa, non c’è da perderci del tempo con un animale e poi ci sono i testimoni e poi non si deve tirar tardi e poi ciascuno ha altro da fare. Ma ecco che se 11 dei giurati votano senza esitazione per la colpevolezza, si trovano di fronte uno di loro che invece arriva a insinuare caparbiamente il tarlo del dubbio. Man mano dai fatti di sangue del processo si passa a penetrare l’intimità di ognuno e ciascuno scopre agli altri la propria sofferenza nascosta. I 12 si ritrovano quasi senza accorgersene a portare a galla il motivo delle loro solitudini, chi perso nella disillusione, chi nella nostalgia per la gloria del passato regime o semplicemente nel ricordo di un dolore mai sopito o di un affronto ancora cocente. Dove è finita la nostra umanità se sappiamo solo schernirla, se riusciamo a malapena a sopravvivere in un presente frantumato che si sofferma con distacco sulle atrocità di una guerra, come quella cecena, che pare non aver fine se non per le vittime lasciate sul campo della storia dei senza nome. Insomma, un film da non perdere per meglio comprendere o almeno per rifletterci un po’, anche se alla maniera russa tutto sembra apparire diverso. Ma in fondo siamo proprio così lontani, gli uni dagli altri, nella ricerca della verità, nella consapevolezza della compassione?

Una bella prova del regista che ci ha dato titoli indimenticabili come Oci Ciornie (1987) con un tenero, malinconico, indimenticabile Marcello Mastorianni, oppure Sole ingannatore con il quale il regista vinse il prestigioso Premio della giuria a Cannes nel 1994.

A titolo di curiosità, Nikita Mikhalkov è un discendente dello zar Romanov.

Dario Arpaio


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