7 days in Havana
Di Dario Arpaio7 Days in Havana è un film da ritenersi collettivo, più che a episodi in senso stretto, tant’è che sette sono i registi dietro la macchina da presa – più uno sulla scena – nel tour attraverso scorci di vita della capitale di uno degli ultimi Paesi comunisti e, di conseguenza, anche dei tanti stereotipi che la illustrano. In realtà l’intento è, da un lato, quello di rendere omaggio alla città e al suo respiro, ma dall’altro anche di decontaminare l’Havana dalle facili considerazioni del conservatorismo, almeno di quello nostrano. Due quotidiani di quella parte hanno stroncato a chiare lettere questo film, considerandolo addirittura noioso (?!). Forse sono sfuggiti alcuni particolari degni di nota. Può succedere anche ai migliori articolisti, soprattutto se smaccatamente di parte.
Ben sette registi hanno lavorato a questo progetto, basato sui racconti di un romanziere cubano di fama internazionale, Leonardo Padura, e ognuno dei cineasti ha, per così dire, catturato per suo conto nella macchina da presa un giorno della settimana, raccontandolo attraverso le piccole storie di turisti malaccorti, di taxisti tuttofare, di ragazze incantevoli e di ‘santere’. Il tutto è fortemente contornato dalla costante della passionale musica di origine creola, così intrisa com’è degli umori e delle tinte musicali africane ed europee, non per nulla così amata in tanta parte del mondo, e, soprattutto, dai suoi protagonisti che la vivono in prima persona, musicisti per amore dell’habanera, della criolla e del danzòn.
Così lo sguardo di Benicio Del Toro, alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, di Pablo Trapero, di Julio Medem, di Gaspar Noè, di Laurent Canet, del grande Elia Suleiman, e dell’unico cubano, Juan Carlos Tabio, hanno inteso cucire e scucire sullo schermo i tanti volti dell’anima di Cuba. Per ogni giorno raccontato assistiamo, di volta in volta, al desiderio di fuga da una vita misera verso il miraggio della ricchezza e del consumismo, o alla prostituzione, o alla santeria come rifugio nella tradizione, ma anche alla spontaneità, all’immediatezza della passione per la vita, allo slancio dei cubani per la fantasia. L’occhio dei registi ci porta a vedere sì le mura ammuffite delle case, dove magari circolano in libertà galline o maiali, ma anche il senso della poesia che scorre forte nel sangue, quando si è dinanzi al malinconico lungomare del Malecòn.
Emerge, dalle varie storie, il senso dell’amarezza dei cubani, costretti a vivere in una dittatura, ma anche il loro forte senso di quella comunione, di condivisione di vita, che noi spesso abbiamo smarrito. Non ci mancherà, come può succedere a loro, la corrente elettrica, magari nel bel mezzo della preparazione di torte e di pasticcini elaborati, ma sapremmo ancora essere capaci di costruire, in quattro e quattr’otto, una fontana, nel centro di una stanza in un appartamento di un condominio povero, solo per rendere omaggio, tutti insieme, alla vergine Oshun e poi festeggiare, cantare e ballare?
Tra i sette giorni del titolo, vorrei ricordare, in particolare, quello per la regia di Elia Suleiman, dove un palestinese, interpretato da lui stesso, attendendo il permesso per l’intervista del Comandante, si perde tra i corridoi dell’hotel Nacional. Se ne sta con il suo sguardo, prima annoiato, distratto nell’attesa e poi sempre più attento verso ciò che riesce a vedere di più autentico, fuori dai muri dell’ideologia, in ogni sfumatura di vita vissuta. Intanto, nel fondo di un bar, una statua, che ricorda Ernst Hemingway, osserva con disincantata malinconia il turista fesso che ha appena coronato il sogno della sua vacanza di sesso a buon mercato, e si fa fotografare con la ragazza che, suo malgrado, si vergogna anche un po’.
Il film è piacevole, anche divertente sebbene un po’ malinconico, girato con affettuoso riguardo da ciascuno dei sette registi. Non sarà forse un capolavoro, ma è un devoto omaggio all’anima libera e al cuore di coloro che vivono in una grande e famosa città, a dispetto di ciò che si può pensare di loro e, soprattutto, di ciò a cui li può costringere una dittatura.
Dario Arpaio
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