Still Alice per una meravigliosa Julianne Moore da Oscar
Di Dario ArpaioSe un giorno passeggerete lungo la walk of fame a Hollywood, incrocerete anche la stellina numero 2507. E’ dedicata a Julienne Moore che nel 2013 ha avuto l’onore di essere immortalata su di una delle strade più famose del cinema accanto a tutti i grandi nomi che l’hanno preceduta. Oggi, a distanza di un anno, ha ricevuto il Golden Globe come Miglior Attrice Protagonista per la sua drammatica interpretazione in Still Alice per la regia del duo Glatzer e Westmoreland. C’è da sperare che fra un mese possa aggiudicarsi anche l’Oscar, che giungerebbe dopo ben cinque sfortunate nomination, e coronerebbe degnamente la sua lunga carriera.
La Moore è la Alice del titolo, docente di linguistica di gran talento alla Columbia. Ha tre figli e un marito innamorato, lui pure di in carriera. Una vita felice alla quale nulla chiedere di meglio. Salvo che il destino le riserva una svolta atroce. All’improvviso dimentica una parola, poi banalmente due. Le capita di perdere l’orientamento, voltandosi intorno angosciata senza sapere dove si trovi, sebbene segua il suo abituale percorso di jogging nel campus. La successiva diagnosi è una sola, benchè atipica rispetto alla sua età: morbo di Alzheimer. Da questo punto in poi il film, firmato da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, basato sul best seller di Lisa Genova dal titolo Perdersi (ed. Piemme), propone una narrazione in soggettiva. Ovvero, non assistiamo al procedere della malattia, come in altri film sull’Alzheimer (su tutti il meraviglioso Amour di Michael Aneke), dove la macchina da presa indugia sulla reazione e la commozione di chi attornia il malato. Still Alice ci fa entrare in lei attraverso i suoi occhi. Il mondo si appanna nello sguardo perso in un vuoto, straniero all’improvviso. I ricordi si sfilacciano in un presente frammentato e via via inesorabilmente spezzato. La vediamo assente dinanzi al video spento della televisione che la interroga in silenzio. Chi sei, anzi chi non sei più? La mente di Alice si frantuma nel procedere acido della malattia più misteriosa e terribile del nostro tempo. Nulla più riconosce del mondo che le apparteneva. Tutto è racchiuso ovattato in una nuvola densa di angoscia che lacera ogni certezza cosciente, sia pure nella più banale delle occupazioni quotidiane. Julienne Moore si carica sulle spalle tutto il film e ci conduce dentro la malattia, come mai era stato visto al cinema, offrendo una interpretazione davvero magistrale, da grande attrice, come forse non le era mai stato dato di poter dimostrare. Still Alice è drammaticamente intenso e delicato, senza cadere in stereotipi melodrammatici o peggio in mediocri accenti da fiction del pronto soccorso. Il film è il suo volto, i suoi occhi che, giorno dopo giorno, si spengono alla speranza e vedono svanire la consapevolezza dell’esserci. La famiglia le è vicina, ma lei non c’è più. Un discreto apporto alla sceneggiatura è dato dai ruoli del marito (Alec Baldwin) e di una delle figlie in particolare (Kristen Stewart), ma è lei e solo lei, Julienne Moore, a convincere che Alice, o ciò che era, è ancora.
Dario Arpaio
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