Almodovar scivola su La Pelle che Abito

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Pedro Almodóvar è certamente il regista spagnolo di maggior successo di critica e di pubblico, e fin dagli anni ’80 non ha mai cessato di stupire e di provocare, incantando. Film come Légami, Donne sull’orlo di una crisi di nervi, e soprattutto i bellissimi Tutto su mia Madre, Volver e gli Abbracci Spezzati lo hanno lanciato all’apice della sua carriera registica. E’ stato acclamato, premiato in Europa e a Hollywood e ogni suo nuovo titolo è un richiamo certo per i suoi fan.

Con La Pelle che Abito, Almodóvar pare invece come ripiegato su stesso. Il suo processo creativo appare involuto, privo di quello slancio e di quella follia poetica che lo ha contraddistinto finora. I temi a lui cari ci sono tutti: dal rapporto madre e figlio, al feticismo sessuale, all’ironia sul sociale, ma sono come spruzzati, sparpagliati sullo schermo, lanciati a secchiate senza un apparente costrutto che riporti a una vera e propria poetica d’autore.

La storia ruota intorno al personaggio, interpretato (piuttosto fiaccamente) da Antonio Banderas, un chirurgo plastico che perde la moglie in un incidente stradale, sfigurata orrendamente tra le fiamme. Lui allora si dedica anima e corpo alla  ricerca scientifica con l’intento di ricreare artificialmente la pelle umana, rendendola imperforabile, addirittura ignifuga. Trova la sua cavia ideale in un giovane che ha tentato di stuprargli la figlia. Da questo momento in poi la vicenda si allunga, si dilata, si disperde, a tratti annoia.

E’ pur sempre forte la mano di Almodóvar, che in qualche sequenza torna a essere quello di sempre, sublime iconoclasta dalla tavolozza satura di toni infiniti, ma la Pelle che Abita rallenta, inaspettatamente, la sua corsa di geniale cineasta.

Dario Arpaio


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