Australia

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australia1.jpgDell’Australia poco si conosce davvero. Solo frammenti di un paese che è continente, ancora meno  se ci accostiamo a un mondo, quello aborigeno, che esisteva prima del nostro e dal quale ha subito ogni sorta di soprusi. Al punto di dover aspettare fino al 13 febbraio 2008 (!) affinchè il primo ministro Kevin Rudd  facesse ammenda e porgesse le scuse ufficiali del governo al popolo aborigeno per tutto il male causato. Il cinema si è occupato poco di quel continente. Ricordiamo però due titoli di pregio, forse anche per capire, The Tracker (2002) e 10 Canoe (2006) entrambi firmati da Rolf de Heer, nato olandese e cresciuto australiano, regista drammatico, lucido, denso di contenuti in odor di Levi Strauss. Entrambi i titoli, comunque, vedono il coinvolgimento più o meno forte di Jamie Gulpilil, attore aborigeno che ritroviamo puntuale nel ruolo dello sciamano King George nel film Australia, regia di Baz Luhrmann. Gulpilil è l’unico punto di contatto tra un cinema vero australiano e il polpettone fortemente voluto dal grande regista del bellissimo Moulin Rouge che segna il sodalizio con Nicole Kidman, quanto mai splendida in quel film. Tutti australiani, come pure l’altro co-protagognista, Hugh Jackman, per offrirci il ritorno del grande cinema epico alla David Lean, come ha precisato lo stesso Luhrmann. Un omaggio a quanto ci è rimasto nella memoria di film come Lawrence d’Arabia e Il Dottor Zivago. Devozione e ambizione che ricordano Via col vento hanno quindi mosso Luhrmann a girare un film come si faceva una volta, con tante comparse (e animali), limitando al minimo gli effetti speciali con il computer. Tutto ciò è encomiabile, davvero. Nel film Australia vediamo scorrere immagini di una terra così lontana anche nei colori, nelle sensazioni di spazio immenso, uno scenario unico, mozzafiato. Ci avvolge la sensazione che lì anche il tempo abbia un senso diverso… (non solo l’acqua negli scarichi…). Qui finisce lo stupore e inizia il torpore. Ovvero: il film è lunghissimo, quasi tre ore, ma non tiene acceso il ritmo. Le sequenze si succedono pigramente e bene o male tutte si rifanno al già visto. La Kidman e Jackman sono un po’ rigidi e non sanno ripetere Vivien Leigh e Clark Gable. Non possono, anche perché, prese le dovute debite distanze tra Jackman e Gable, la sceneggiatura non lo permette. Quella di Australia non decolla mai. Non esprime pathos epico, solo qualche fremito da fumettone.
Va dato gran merito alla fotografia nonché all’accenno di quella che è stata una vergogna tutta australiana, la Stolen Generation. La generazione perduta dei figli nati meticci che venivano poi ‘prelevati’ dai buoni cristiani bianchi con l’intento di separarli dalle madri, di ghettizzarli per ‘allontanare il nero’ che portavano dentro e mantenere pura la razza. Chi fosse interessato ad approfondire questo penoso dramma dell’infanzia, iniziato approssimativamente nel 1869 e continuato fino al 1969 con qualche residuo episodio documentato fino agli anni 1970 (!) può trovare indicazioni e riferimenti in Wikipedia inglese a questo link: http://en.wikipedia.org/wiki/Stolen_Generation

Dario Arpaio


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