Barney Panofski è qui

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Il regista Richard J. Lewis, forte del successo televisivo della serie CSI, da lui firmata, si rilancia sul grande schermo con La Versione di Barney, dall’omonimo romanzo di Mordechai Richler e ne trae una riuscita e gradevole commedia con un Paul Giamatti in più, superlativo e in odor di Oscar.

Barney è uno dei più amati personaggi creati da Richler, con forti connotazioni autobiografiche, sempre smentite dall’autore. Barney è Barney, e pensando a lui non lo si può non accostare ai sigari Montecristo o al whisky Macallan (e al Cardhu), all’hockey su ghiaccio, alla Montreal della famosa rue St Urbain, alle radici ebraiche, al suo cinismo divertito che non perde occasione per sghignazzare in faccia al mondo conservatore.

Il film è certamente ben formattato, ruota soprattutto intorno al grande fortissimo legame tra il protagonista e una delle tre mogli, Miriam, personaggio forte, bellissimo e affascinante. Viene un po’ sacrificato il rapporto con le prime due mogli, soprattutto quello con la prima. Del libro (lo trovate su questa pagina) si perde effettivamente molto. Chi arrivasse a conoscere Barney per la prima volta al cinema, dovrebbe assolutamente rileggerlo nel libro.

Innanzi tutto non si capisce perché la storia con la prima moglie si dipana negli anni ’70 a Roma invece che nella splendida cornice della bohème parigina profumata di Hemingway, e, soprattutto si risolve in pochi dettagli. Anche della seconda moglie resta poco, nemmeno il processo, così spassoso nel libro. C’è tanta Miriam, la terza moglie, lei sì riempie la vita di Barney, fin nel profondo dell’animo. Ma Barney è Barney. Non tralascia mai la sua passione per l’hockey, e soprattutto l’onnipervadente ironia tipica della migliore tradizione yiddish, quella secondo cui ‘Dio ama il povero ma aiuta il ricco’.

Le scelte del regista o le lacune rispetto al romanzo sono magnificamente supplite dalla grande interpretazione di Paul Giamatti e anche di Dustin Hoffman, quest’ultimo nei panni del padre ex-poliziotto in pensione. I duetti tra i due da soli valgono il biglietto.

Certo Mordechai Richler rimane un po’ sacrificato, ma non del tutto e, credo, non se ne avrebbe minimamente a male. Lui stesso affermava che aveva iniziato a scrivere romanzi solo perché non aveva avuto un’altra buona opportunità di trovare un lavoro onesto … e piacevolmente si stupiva anche un po’ del così grande successo ottenuto soprattutto in Italia.

Richler è Barney Panofski e tutti noi vorremmo averlo avuto come amico di sbronze, avrebbe potuto aiutarci a capire meglio come vanno le cose di questo mondo, tra una risata e un ghigno, a tratti amaro.

Dario Arpaio


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