Cous cous

Di

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La ricetta del cous cous è semplice: semola impastata con acqua e condita con una salsa a base di cipolla, harissa (condimento assai piccante), con contorno coloratissimo di pomodori, patate, zucchine, zucca, ceci, il tutto profumato da prezzemolo, zafferano, cannella e peperoncino a piacere. Si può accompagnare con carne di agnello o con pesce, come appunto vuole il titolo originale di questa pellicola molto applaudita a Venezia (forse poco premiata), La Graine et Le Mulet (semola e muggine) del franco-tunisino Abdellatif Kechiche. Il titolo è stato poi tradotto per i nostri schermi in Cous Cous. Ci siamo soffermati sulla ricetta perchè è così semplice e con tanti ingredienti come la storia narrata sullo schermo, è tipica di quei cibi che amano la famiglia numerosa, che richiamano alle attitudini comunitarie, o a quel tipo di pranzo tradizionale che da noi in passato culminava in feste paesane dal sapore forse perduto. Cous Cous ci porta indietro nel tempo pure con un omaggio schietto al nostro neorealismo. Kechiche altrettanto utilizza attori non professionisti, presi dalla strada, tra i quali in particolare evidenza la dolce e passionale Hafsia Herzi, nella foto, premiata a Venezia come miglior attrice esordiente. Il film ci offre quasi in chiave documentaristica alcune sequenze particolarmente riuscite, tra le quali la corsa disperata del protagonista all’inseguimento dei balordi che gli han soffiato il motorino quasi come in Ladri di Biciclette. Anche il volto del protagonista Slimane, interpretato da uno sconosciuto Habib Boufous, ricorda quello drammatico di Lamberto Maggiorani protagonista di quel gran film del 1948 dove mai più alto di così ebbe a manifestarsi il senso della pietas secondo De Sica e Zavattini. Kechiche e la sua regia traboccano della stessa commossa partecipazione alle storie dei suoi perdenti, gli emigranti tunisini di Cous Cous. Il film è anche dedicato da Kechiche a suo padre (recentemente scomparso; avrebbe dovuto interpretare lui stesso il ruolo di Slimane) e a tutti coloro i quali emigrarono in Francia portando con sè le speranze di chi ha solo un passato e di fronte solo coraggio.

Il protagonista della vicenda è un sessantenne costretto a lasciare il suo posto di operaio dopo una vita trascorsa nei cantieri del porto di Sete, lavoro divenuto troppo duro per il suo fisico. Slimane è divorziato, ha una nuova compagna e tanti figli. Però si ritrova solo nella sua inutile disperazione, ma riemerge in lui una rinnovata volontà di non fermarsi, di non accettare la sconfitta e si inventa un sogno: acquistare un barcone in demolizione per trasformarlo in un ristorante con menù a base di cous cous. Per il sessantenne inizia una trafila burocratica per ottenere prestiti e permessi, con incontri e scontri, tra la falsa compiacenza dei più e quel pizzico di razzismo che non è tipico solo dei francesi, ma un po’ di tutti noi. Intorno alla storia di Slimane, Kechiche compone e dirige via via un coro di tanti primi piani, tessendoli in un dialogo pulito, mai ridondante. Le donne spettegolano, così pure gli uomini, si criticano gli uni con gli altri, si urlano contro invidie e gelosie, cattiverie, vere o presunte. Tutti si ritrovano coinvolti nel sogno di Slimane, nel ristorante sul barcone che si chiama La Source, la sorgente, quasi a indicare la speranza di una nuova vita, della rivincita, della rinascita. Il finale rimane drammaticamente aperto e allora non resta che augurare a tutti ‘besmellah!’, buon appetito! La vita è servita!

Dario Arpaio


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