Dream House, di Jim Sheridan: una recensione
Di nicolettaJim Sheridan, regista al suo primo debutto nel genere psychological thriller, cade subito nei classici cliché di turno: metriche banali e già viste, costruite da colpi di scena molto spesso (anzi, quasi sempre) inefficaci. Prima parte lenta e piuttosto noiosa, anche dove non dovrebbe esserlo. Purtroppo il trailer ufficiale rovina gran parte del film e porta a pensare, già alla fine del primo tempo, di avere visto tutto.
Will Atenton (Daniel Craig, che abbiamo conosciuto in Casino Royale e Lara Croft: Tomb Raider), è un editor in attesa di finire di scrivere il proprio libro personale. Decide di lasciare l’azienda per cui lavora per portare avanti il suo progetto e stare così di più con sua moglie Libby (impersonata da Rachel Weisz, vià vista in Costantine e La mummia) e le sue figlie. Decide quindi di trasferirsi con loro in una casa che sarà molto diversa dall’isola felice delle loro attese: al suo interno infatti cominciano a capitare cose strane da un giorno all’altro.
Qualcuno sembra infastidirli proprio quando l’inconsapevole famiglia scopre che in quella dimora, così confortante, si nascondeva un terribile massacro avvenuto cinque anni prima. Un uomo di nome Peter Ward aveva assassinato moglie e figlie proprio tra quelle mura e ora sembra essere tornato a infastidire la nuova famiglia residente nella casa.
Ma proprio quando Will inizia a indagare sul passato di quest’uomo, le cose si complicano e molte verità tornano a galla, tanto da distruggere tutto il presente vissuto da Will. Lo psichiatra che aveva in cura Peter Ward rivela a Will: voi due siete la stessa persona. La dolce moglie e le bellissime bambine che vivono ogni giorno con te in quella casa, teatro del suo stesso delitto, sono solo un’immagine illusoria e distorta della realtà che vive nella tua testa.
Come dicevamo, il trailer ufficiale del film, distribuito dalla Universal Pictures, racconta tutto ciò e fa pensare a un film dalle tematiche fortemente psicologiche volte a narrare il classico concetto della malattia mentale e del disagio spesso vissuto dai protagonisti di queste storie: persone che si trovano ad affrontare la realtà sotto un altro punto di vista, cercando di diventare consapevoli della malattia che alberga in loro. Tentano così di analizzare le cause che li hanno spinti a innalzare come muri nelle loro menti, quei freddi e densi meccanismi di difesa, e di trovare la soluzione per abbatterli arrivando così a una verità più tangibile, visibile anche da chi gli sta attorno, in una forma di redenzione e di presa di coscienza finale. Questo è quanto più ci si aspetta in film di questo tipo e la prima parte fa di tutto per rispettare la struttura del genere in questione. Infatti, Will tornato a casa comincia a vedere la realtà per com’è davvero: la sua dimora non è più accogliente e ben tenuta, anzi, cade a pezzi ed è disabitata.
La presa di coscienza del protagonista avviene proprio qui, dove a tratti la casa si ricompone come in un bel puzzle colorato alternando il disagio del protagonista alla felicità delle figlie nel rivederlo tornare a casa e alla preoccupazione di Libby nel vederlo insicuro su ciò che vede.
Ma nella seconda parte del film la trama prende una piega diversa e tutto viene ribaltato: ciò che sembrava non era ciò che è davvero. Tra quella sottile linea di reale e di irreale cosa c’è di autentico? È questa la domanda a cui si arriva, e in cui si dispiega la trama fino alla conclusione. Una risoluzione bella ma piuttosto frettolosa e poco dettagliata purtroppo, perché a mio parere, l’idea di fondo non era affatto male. Si vede ampiamente che Jim Sheridan ha avuto – com’è stato detto dalle fonti più accreditate – dei problemi e degli scontri con David Loucka (sceneggiatore del film) arrivando al punto di rinnegare la pellicola.
La colonna sonora è stata affidata a John Debney e alterna momenti dolci ad altri più sinistri, non discostandosi mai dagli armonici che lo hanno contraddistinto in molti altri film, soprattutto di marca Walt Disney. Tirando le somme, si può dire che il film non convince completamente, anche se a un certo punto, come ho detto precedentemente, il percorso cambia, vittima (forse?) dei forti contrasti. La pellicola, comunque, può collocarsi sicuramente a fianco a film come The Others, A Beautiful Mind e Number 23. Ma, sotto certi aspetti, mi duole dirlo, non ne regge assolutamente il confronto.
Loris Baiardi
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