Garage, della solitudine e altre storie
Di Dario Arpaio
Il film Garage del 2007, viene distribuito nelle nostre sale solo oggi, grazie alla Mediaplex Italia, nonostante abbia già ottenuto vari riconoscimenti a Toronto, Atene, Londra, Cannes, nonché il premio come Miglior Film proprio nella edizione 2007 del Torino Film Festival.
Non è mai facile trovare mercato per una pellicola di una produzione minore, lontana dal potente frastuono delle major. Garage è diretto dall’irlandese Lenny Abrahamson che si avvale della sceneggiatura del conterraneo Mark O’Halloran ed è magnificamente interpretato da Pat Shortt, che, a titolo di cronaca, è un attore comico assai famoso in Irlanda, qui alle prese con un ruolo drammatico.
La vicenda narra del semplice Josie; del piccolo paese dove vive lavorando presso un distributore di benzina; della gente della provincia irlandese, un po’ chiusa, lontana dalla grande città, protetta da una campagna pregna di umori ovattati che smarriscono, nel buio della solitudine, gli odori e i colori di una natura bella e selvaggia. Josie però è felice nel suo mondo, nella sua squallida officina. E’ orgoglioso anche delle minime insignificanti migliorie da apportare al garage, sulle quali va rimuginando senza sosta. Cammina a lungo, appena può, gli fa bene alle anche. Se trascorre qualche ora al pub, c’è chi lo prende in giro, chi si burla del suo essere un disadattato, ma c’è anche chi cerca di ripararlo dagli scherni. Lui è buono, mite e questo alle ragazze piace fino a un certo punto.
Josie è solo. Come lui anche gli altri compaesani vivono ciascuno per sé, isolati, ma pronti all’offesa se chiamati a difendere cosa? Quella patina di perbenismo, quell’opacità che forse neppure sanno di subire. Josie sconterà una sua ingenua dabbenaggine nel tragico epilogo raccontato dal regista con un tocco sublime, essenziale, poetico.
Forse è lo stesso nuovo cinema irlandese che cerca una strada diversa. Non più solo argomenti a sfondo religioso, ma via all’introspezione seppure dura, attraverso uno sguardo anche cattivo, se occorre, un po’ alla Ken Loach. Lo stesso Abrahamson afferma di aver scelto di utilizzare pochi movimenti di macchina, girando come si faceva una volta, per concentrarsi sugli sguardi, sui silenzi e, soprattutto, sulla realtà di ogni giorno. Quella stessa che lui e O’Halloran hanno portato sullo schermo con tratti decisi, quasi pittorici per esprimere un disagio e un male, che, comunque, può covare in ogni dove, non visto. Quello che non ha pietà per i piccoli bastardi.
Dario Arpaio
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