Hunger, Fassbender esalta McQueen
Di Dario ArpaioHunger, opera prima del regista Steve McQueen, già scultore e fotografo di successo, ha ricevuto premi e onori. European Film Awards e Caméra d’Or a Cannes nel 2008 e, nello stesso anno, al British Indipendent Film Awards è stato acclamato all’unanimità come miglior regista esordiente, e Michael Fassbender è stato consacrato miglior attore protagonista per la sua interpretazione straordinaria. McQueen si cala profondamente, con una lettura intensamente lirica, in quella che fu una vicenda di cronaca così atroce come lo sciopero della fame del 1981, iniziato dai detenuti dell’IRA nel carcere di Long Kesh, che continuò fino alla morte del giovane Bobby Sands dopo 66 giorni di digiuno. Dopo di lui altri 9 repubblicani irlandesi fecero la stessa fine. Margaret Thatcher si mantenne irremovibile di fronte alle richieste degli irlandesi, i quali non vennero mai riconosciuti come detenuti politici e trattati come delinquenti comuni della peggior specie.
Hunger narra quei fatti, snocciola quei giorni di rabbia e di fame, penetrando nel senso del dolore e della ribellione, dipinti con una potenza impressionante, quasi caravaggesca, tinta di luci e ombre scontrate sui volti dei personaggi, sulle loro carni, lasciando via via emergere le anime dissacrate dei prigionieri. Al loro rifiuto di indossare la tenuta carceraria con la pretesa di mantenere l’uso dei propri abiti, non ritenendosi altro che patrioti, la risposta netta furono vessazioni e violenze da parte delle guardie. Venne chiamata la ‘blanket protest’ perché le coperte erano l’unico indumento concesso in alternativa. McQueen legge la loro nudità quasi come il prologo di una lenta dolorosa catarsi, di una progressiva spoliazione della dignità che introduce e sviluppa attraverso parti secondarie, per poi concentrare la macchina solo sulla lenta agonia di Bobby Sands.
La prima sequenza indugia sulle mani di una guardia che cerca sollievo nell’acqua fresca al dolore delle nocche escoriate per i tanti pugni sferrati. Ma il sangue resta attaccato alla pelle come sulle mani di una Lady Macbeth ossessionata, così come la paura che domina la prima parte del film. Quella della guardia che teme la vendetta degli amici dei prigionieri, l’altra che pervade un giovane irlandese al suo ingresso nel famigerato carcere. In entrambi permane profondo il senso dell’odio, della sopraffazione, della ribellione. Non ci sarà mai la pace, né per l’una, né per l’altra parte. L’ultima guerra di religione della storia dell’Europa non avrà mai fine. Non c’è spazio per la Bibbia, le cui pagine possono servire solo a rollarsi una sigaretta. Dalla protesta delle coperte si passa a quella del sudiciume, degli escrementi che vengono spiattellati sui muri delle celle, dell’orina che viene fatta scorrere fuori nei corridoi.
McQueen non indugia nella agiografia, nella celebrazione, semplicemente racconta ciò che si presenta come antefatto della scelta estrema di Bobby Sands. Memorabile la sequenza del dialogo tra Bobby e padre Moran che tenta di dissuadere l’uomo da un sacrificio probabilmente vano. La camera rimane fissa, distante dai due impegnati in un dialogo dal ritmo serrato, avvolto nel fumo delle sigarette che Bobby accende una dopo l’altra. Poi uno squarcio di luce indugia sui primissimi piani dei volti. Alle violenze della polizia Bobby replicherà con le sue carni che si asciugano sulle ossa, quasi elevandolo a un livello spirituale. Le sequenze della fine sono atrocemente sublimi.
Hunger si presenta come un film di rara concezione e bellezza artistica, frutto di una regia che estromette clichès, capace di fare ricordare più che di compiacere l’esaltazione. Dolcissime, delicate sono le ultime immagini di Bobby che rivede se stesso bambino correre e giocare lontano nella visione del passato, un attimo prima di lasciare l’ultimo fiato libero oltre le sbarre.
Dario Arpaio
Commenta o partecipa alla discussione