Il Canto di Paloma per l’Orso d’Oro
Di Dario ArpaioCon gli occhi chiusi, la madre di Fausta, in un filo di voce, intona per la figlia un ultimo flebile sofferente canto ninnato, svelandole che è stata concepita dopo lo strazio di una violenza carnale. Così prende il via la storia di Fausta, allattata da quel ‘seno gonfio di dolore e di paura’. Questo è il significato de La Teta Asustada, il titolo originale del film di Claudia Llosa, che suona assai meglio della traduzione nostrana, Il Canto di Paloma.
La giovane regista peruviana, alla sua seconda prova, ha ottenuto il riconoscimento dell’Orso d’Oro all’ultima berlinale dove la giuria, all’unanimità, ha voluto premiare quest’opera dura e forte nella sua indiscussa originalità espressiva. Molto si deve anche alla protagonista Magaly Solier, incontrata per caso dalla regista davanti a una chiesa mentre era intenta a vendere frutta. Magaly è davvero perfetta nel vestire i panni di Fausta in un’encomiabile performance giocata spesso sugli intensi primissimi piani.
La vicenda è ambientata in un sobborgo della periferia di Lima in un’atmosfera resa surreale dai colori accesi. Ormai le violenze della guerra civile sono un ricordo (hanno causato, secondo le stime più attendibili oltre 70.000 morti). La madre della protagonista è appena morta e mancano i soldi per la sepoltura nel lontano paese d’origine. Intanto nella casa dello zio, dove Fausta vive, fervono i preparativi per il matrimonio della cugina e, tra la salma che crea imbarazzo e le prove dell’abito da sposa, i giorni trascorrono senza sopire la fobia terribile della quale è preda Fausta, che fugge da ogni qualsiasi vicinanza con gli uomini. Non esce in strada da sola, un nonnulla, anche solo uno sguardo indiscreto, scatena in lei il terrore che le deriva dall’aver succhiato il ‘latte della paura’.
E’ una vera e propria ossessione a corroderle l’animo e il corpo fino a farla giungere alla determinazione di infilarsi una patata nella vagina per proteggersi da ogni violenza (pratica effettivamente in uso in Perù durante la guerra civile). A nulla valgono i richiami del medico. Il mito e le leggende di paura vincono sulla scienza e sul buon senso. Nulla si può fare: Fausta ha la malattia. Il canto diventa la sua unica espressione di una vita impressa nel dolore. Di quelle melodie struggenti si impossessa la signora, nella cui casa Fausta presta servizio come domestica.
La ricca padrona è una pianista in crisi e arriva a tradurre quel canto sul pianoforte riacquisendo sia la sua vena creativa smarrita, sia il successo ottenuto grazie alla sonata eseguita davanti a un pubblico plaudente a quelle note, così uniche, vere, senza sospettare che è una sofferenza antica, una memoria atavica ad averle germinate. Ma la voglia di vivere avrà alla fine il sopravvento anche in Fausta. Le ultime immagini del film chiuderanno metaforicamente il suo canto in un piccolo fiore. Così termina un film che fa dell’introspezione al femminile e degli sguardi rubati, un’opera davvero interessante, molto viva.
Dario Arpaio
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