Il Profeta, grande Audiard!

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La natura è un assassino sorridente. Lo afferma Dennis Lehane, autore di thriller di grande successo, divenuti soggetti per il cinema, ultimo in ordine di tempo, Shutter Island per la regia di Scorsese.

La violenza è nella natura dell’uomo, da lui stesso generata e capace di trasformarlo in una  creatura nuova. Se un giovane uomo entra per la prima volta nel branco, viene messo a dura prova, ma quando ritrova in sé la forza e la capacità di comprenderne gli schemi e le regole, può sopravvivere e diventare lui stesso un lupo.

Jacques Audiard nel suo pluripremiato Un profeta, racconta l’apprendistato di un diciannovenne il quale, condannato a sei anni di carcere, da servo diventa padrone. Malik è il suo nome. E’ solo.  Non ha famiglia, non ha amici. Non sa né leggere, né scrivere. Sta in un angolo, appartato. Viene notato da Luciani il corso che, per così dire, lo adotta, addomesticandolo a suo uso e consumo. Nel carcere di Audiard i clan si fronteggiano nella parabola del potere dentro le mura. Da un lato gli arabi, dall’altro i corsi.  Da un lato la vecchia scuola, destinata a estinguersi nell’evoluzione delle nuove leve, forse ancora più spietate.

Un profeta non vuole essere un film di denuncia sulla condizione della vita carceraria, né cerca di tessere logiche interrazziali, bensì racconta la cronaca di una metamorfosi, di un’educazione alla violenza e al potere, così come potrebbe avere luogo, sebbene in altre forme, in qualsiasi ambito della vita sociale.

Malik apparentemente non ha  sentimenti. Reagisce dapprima come può farlo una bestia spaventata per poi affinare l’arte della sopravvivenza e della sopraffazione. Pur nella durezza delle circostanze e dei fatti, nei quali si trova man mano sempre più coinvolto, Malik riscopre un lato umano di se stesso. S’intenerisce davanti al mare, sorride alle nuvole, gioisce se tiene in braccio un neonato. Impara a leggere e scrivere. Comprende l’arabo, il dialetto corso e nulla gli sfugge. Vede il suo futuro, lo trasforma e l’uomo in lui evolve, diventa un capo.

Tutto ciò viene raccontato da una macchina da presa in continuo movimento, ne diviene il testimone anche nelle notti quando i sogni sopraffanno la realtà e gli incubi si fanno reali. La coscienza ne resta turbata, ferita, ma la realtà è più forte. Il richiamo del fare è più pressante e nessun ostacolo si può opporre alla rivincita sul fato. Non c’è scampo nel carcere di Audiard, è dura scuola di malavita e non pone nessuna base per la possibile riabilitazione.

Straodinari i due protagonisti, Tahar Rahim nei panni di Malik e Niels Arestrup nel ruolo del boss Luciani. Jacques Audiard firma una magnifica regia formalmente audace, asciutta, senza fronzoli, efficace e appassionante dal primo all’ultimo minuto di un gran finale sulle note di Kurt Weil.

Mostra i denti il pescecane ed ognuno li vedrà; Mackie Messer ci ha un pugnale ma nessuno lo saprà.

Dario Arpaio


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