J.Edgar secondo Eastwood
Di Dario ArpaioClint Eastwood, classe 1930, torna al grande cinema con il suo J. Edgar, biopic su di uno dei personaggi più potenti e controversi della recente storia americana, J. Edgar Hoover, a capo dell’FBI per quasi 50 anni, che fu controllore e censore del pubblico e del privato, influendo direttamente o indirettamente sul costume di vita degli Stati Uniti. Eastwood ripercorre tutta la carriera di Hoover dagli inizi negli anni ’20, fino alla morte nel 1972, proponendo sullo schermo la figura di un sociopatico, ferocemente anticomunista, conservatore fino al midollo, nemico acerrimo della malavita organizzata, grande innovatore dei sistemi e dei criteri di indagine poliziesca, creatore e custode di una banca dati dei profili e dei segreti dei suoi connazionali. Potente nel suo Paese quanto disadattato e fragile nel privato, ossessionato dalla figura materna, astuto e ambiguo, puritano e omosessuale, fondamentalista al punto di non lesinare a utilizzare a suo piacimento imbarazzanti risultati di investigazioni sulla condotta privata dei presidenti o delle loro consorti. Pronto a tutto pur di preservare, lecitamente o meno, il suo potere su quello che doveva essere il sistema secondo la sua personale visione. Un personaggio dai mille pregi e dagli innumerevoli difetti, impersonato da un super Leonardo Di Caprio, eccellente, perfezionista e in odor di Oscar. Così come certamente potrebbe essere considerato Jack Taggart per il trucco. Ogni giorno di riprese sono occorse non meno di sei ore per invecchiare il volto di Di Caprio, fino a rendere magnificamente un imbolsito Hoover alla fine dei suoi giorni. Intorno al protagonista fanno da corollario le due uniche donne della sua vita: la madre, interpretata da una straordinaria Judi Dench, dura e possessiva, e la segretaria di sempre, Naomi Watts, (forse) moglie mancata, ma fedele esecutrice muta e infaticabile degli ordini di un capo che non tentennava nel percorrere ogni via, lecita o meno, pur di detenere un potere assoluto, talvolta oscuro. Infine, il partner, amante (forse) mancato, interpretato da Armie Hammer, che ha accompagnato Hoover in ogni istante della sua personale guerra al crimine, ombra di un amore troppo rischioso per la figura pubblica del capo indiscusso dell’FBI.
Eastwood, lui stesso repubblicano dichiarato, dirige un film cupo, disincantato, evidenziando ancora una volta, come già nelle sue precedenti opere, la fragilità di un grande sogno di libertà, quello americano, che via via è stato macchiato, a volte addirittura frantumato, oltrepassando il limite dove il male e il bene si mescolano, si fondono, irriconoscibili a se stessi, in un coacervo di vizi e di virtù.
Il cinema è ancora e pur sempre la grande arte capace di raccontare, di denunciare oppure, perché no, di manipolare il gusto del pubblico. Eastwood lo cita egli stesso con raffinata eleganza nel suo J.Edgar, nelle sequenze all’interno di un cinema dove vengono proiettati i film con il grande James Cagney, impegnato a interpretare alternativamente ruoli da gangster dal fascino canaglia o irreprensibili g-man, sempre esaltando il suo pubblico, affascinandolo, influenzandone, di volta in volta, il gusto e i favori, così come forse Hoover stesso avrebbe ambito a fare.
Dario Arpaio
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