Le Quattro Volte di Frammartino

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Le Quattro Volte di Michelangelo Frammartino ha riscosso grande ammirazione a Cannes 2010 dove è stato selezionato per la rassegna della Quinzaine des Realizateurs, palco prestigioso per quei cineasti che stanno ‘fuori’, che ricercano, sperimentano linguaggi originali, e, pur facendo arte, restano ai margini, non vanno a finire nella bottega, troppo attenta a stordire il pubblico con un intrattenimento spesso più che insulso.

Frammartino con la sua opera ha certo onorato il cinema italiano. Molto più di qualche ruspante ottuso politicante nostrano, ma preferiamo concentrarci su Le Quattro Volte piuttosto che non perdere tempo a sbattere la testa contro i muri o i materassi.

Il giovane regista ha impiegato cinque anni nelle riprese effettuate in piccoli centri rurali della Calabria, sua terra di origine, scavando nelle tradizioni più arcaiche, in una ricerca dai forti connotati antropologici, ma anche filosofici, dal momento che il titolo stesso riconduce ai quattro aspetti della vita dell’uomo secondo Pitagora. Per il filosofo ‘minerale’, ‘animale’, ‘vegetale’, ‘razionale’ si intersecano, si inseguono e si completano l’un l’altro. Forse non a caso il richiamo proprio a Pitagora, il cui nome nell’etimologia greca, ha il significato di ‘colui che persuade la piazza’. Non è forse il cinema un grande fascinatore dove l’immagine offre di sé ciò che non si vede?

Le Quattro Volte è la macchina da presa muta che vede spegnersi lentamente la vita di un vecchio pastore, ostinato a volersi curare con la polvere raccolta sotto l’altare della chiesa e ritenuta magica. Le sue capre scoprono il corpo esanime del loro pastore in una delle sequenze più belle e toccanti. Al cane da gregge, rimasto senza guida, sta il compito di non lasciar passare nessuno, ossequiando il suo ruolo anche dopo la scomparsa del padrone. Al neonato capretto sta il gioco spensierato con gli altri piccoli. Poi scoprirà anche la paura, che lo avvolgerà nella notte quando, perdutosi nel bosco, verrà come richiamato dallo stormire amico delle fronde di un gigantesco albero. Là il sonno dell’agnello cercherà protezione. Successivamente agli uomini del paese toccherà poi abbattere quell’albero, per trasformarlo in palo della cuccagna, simbolo dei sogni inafferrabili. Terminata la festa, verrà fatto a pezzi e ridotto in carbone. La lunga, elaborata, sapiente preparazione della carbonaia, secondo un antichissimo meticoloso rituale, è un’altra delle sequenze più riuscite del film di Frammartino, quella che apre e chiude magicamente in poesia il cerchio della narrazione.

Il cinema del giovane regista è scrupoloso nell’uso di un’inquadratura sapiente dell’insegnamento dei grandi maestri del passato, orchestrata in un montaggio originale, dalla narrazione forte, che non ha bisogno né di dialoghi, né di musica per farsi sentire, per tenere alta un’attenzione ammirata. Un certo asciutto minimalismo di Frammartino ricorda Robert Bresson, il quale pure diceva che i rumori devono diventare la musica del film. Frammartino ci regala davvero  poesia di quelle rare, senza tempo, universali, dove l’uomo ritrova la sua dignità nel mito, ben lontano dalla quotidianità sciatta e omologata dei nostri giorni.

Dario Arpaio


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