L’ultima cavalcata di Dennis Hopper
Di Dario ArpaioIl 29 maggio a Venice, California, Dennis Hopper ha perso la sua battaglia con il cancro. Era comparso un’ultima volta in pubblico nel mese di marzo alla cerimonia che gli assegnava un posto e una stella sulla Walk of Fame di Hollywood, quella stessa che lui avrebbe assertivamente bruciato negli anni ’60, quando era visto solo come un attore mediocre, drogato fino al midollo.
E’ stato ricordato in tanti modi, con tanti vestiti, in verità tutti più o meno sgargianti. Come al solito in queste circostanze sono spuntati da dietro le quinte gli ammiratori, quelli che hanno sempre puntato su di lui senza condizioni… Bleah! E’ il mondo dei coccodrilli che ruota nella solita danza dell’‘io lo conoscevo bene!’. Usanza, consuetudine di bottega.
Dennis Hopper non è mai stato un grande attore, neppure un cineasta eccelso, però emanava un non so che di affascinante, in un alone frizzante di estroversione genialoide.
Ha esordito con Gioventù Bruciata (1955) a fianco di Jimmy Dean. Poi nel Gigante (1956) lavorando via via con tutti i più grandi registi, da Wim Wenders a David Lynch, da Francis Coppola a Abel Ferrara, George Romero, Tony Scott. La Hollywood che lui detestava, alla fine l’ha percorsa in lungo e in largo, da tutti i lati. E si è anche creato un buon nome come scultore di opere in plexiglas.
Ma io lo voglio ricordare per due film molto lontani uno dall’altro nel tempo, con il comune denominatore nella presenza e passione per le moto, Indian degli anni ’40, Harley o chopper. Il trionfo (e la ricchezza) Dennis Hopper lo colse proprio a cavallo di un celeberrimo chopper che correva a fianco di quello di Peter Fonda in Easy Rider nel 1969. Nessuno aveva dato credito ai due amici che pure decisero di girare in proprio, a bassissimo budget, la storia di due biker alle prese con la traversata degli States per andare a spassarsela al carnevale di New Orleans, questo dopo aver fatto soldi spacciando droga, per trovare, alla fine, la morte per mano dei soliti buzzurri reazionari insofferenti verso i capelloni. Già perché negli anni ’60 i capelloni, quelli che volevano vivere ai margini del sistema, non erano tollerati. E invece fu proprio quel film sulla facile cavalcata in moto a guadagnare cifre astronomiche, dando anche maggior corpo e sostanza alla New Hollywood, quella del cinema indipendente e a basso costo con profitti eclatanti. Così Easy Rider, casualmente, segnò il passo anche per registi come Martin Scorsese, Brian De Palma, Steven Spielberg, Sydney Pollack e Francis Ford Coppola. Due anni prima di Easy Rider aveva trionfato Il Laureato e ancora nel 1969, Peckinpah firmava uno dei più bei western di tutti i tempi, Il mucchio selvaggio. Quindi, in qualche modo, proprio Dennis Hopper e Peter Fonda avevano battuto il tempo per gli altri, probabilmente senza volerlo, ma solo per aver creduto cocciutamente in una storia di biker.
Personalmente, io, nato negli anni ’50, quel film, l’ho visto e rivisto, e, ancora recentemente, pure in lingua originale, provando la stessa fascinazione per il viaggio sulle due ruote, nella più totale libertà di spirito. Per me ha significato più di qualcosa quello stesso Dennis Hopper, allora come oggi, quando l’ho ritrovato, in un altro film, ancora a cavallo di una moto, una vecchia Indian con il cambio a cloche (nella foto. Credo si tratti di un modello degli anni ’40).
Larry Bishop ha scritto, interpretato e diretto Hell Ride, uscito negli Usa nel 2008, sostenuto dal suo grande amico Quentin Tarantino nella produzione di questo film (mediocre) che non mi pare sia mai stato distribuito in Italia. Hell Ride è la storia di una guerra tra bande di biker, i buoni (si fa per dire) Victors contro i terribili 666. Larry Bishop contro un cattivissimo Vinnie Jones, braccio più che violento di David Carradine, tanto per restare in tema di cattivi del cinema.
E Dennis Hopper? Lui è Eddie ‘Scratch’ Zero, uno dei vecchi Victors, che, in nome delle 3B (bikes-bier-brotherhood, come dire, moto-birra e fratellanza), torna sulla strada a cavallo di una magnifica Indian per aiutare i buoni (sempre si-fa-per-dire…) ad avere la meglio sui trucidi della 666.
Lui, con quel suo fare sornione, quel suo stare in moto, con lo sguardo nel vento, ebbene, è anche uno degli ultimi modelli (un po’ velati di sana nostalgia) di quel senso di libertà, di creatività, di estroversione ribelle, figlia degli anni ‘60, che Hopper è come se si fosse portato via con sé per sempre, due giorni fa, insieme con quei miseri 45 chili di peso che gli erano rimasti.
Dario Arpaio
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