Mange tes morts di Jean-Charles Hue vince il 32° TFF
Di Dario ArpaioE’ calato il sipario sul 32° Torino Film Festival. Circa 90000 spettatori hanno affollato le 9 sale messe a disposizione per la nuova edizione della kermesse torinese (due in meno dello scorso anno) indicando un trend delle presenze in crescita laddove non è stato lesinato il vivo gradimento al ricco cartellone proposto anche quest’anno. La brillante direzione di Emanuela Martini non potrà non essere che soddisfatta del risultato acquisito nonostante i tanti ostacoli affrontati e superati con un budget ridotto.
In chiusura del festival la giuria della rassegna principale, Torino 32, presieduta da Ferzan Ozpetek ha assegnato il titolo di miglior film a una straordinaria opera francese, Mange tes Morts di Jean-Charles Hue dal titolo apparentemente spiazzante.
‘Mange tes morts’ è un insulto, duro e secco, il peggiore che si possa lanciare a un gipsy. Per questa etnia senza dimora il vincolo familiare è fortissimo. Lanciare questo insulto vale come distruggere il senso di appartenenza alle radici. Non c’è nulla di peggio anche nella vicenda raccontata brillantemente da Hue, a metà tra il documento e la fiction. Hue ha incontrato quasi per caso i Dorkel, i protagonisti, che vivono nella comunità Jenisch, nella banlieu parigina. Dalla sua frequentazione del campo nomade il regista francese ha elaborato la sceneggiatura di Mange tes Morts, e ne ha tratto un film noir, aspro e dotato di grande fascino per una vicenda familiare che richiama, per certi versi, il bellissimo film Lawless di John Hillcoat del 2012. Nel film americano erano tre montanari, i fieri e leggendari fratelli Bondurant, a combattere ogni ostacolo teso a limitare la loro indipendenza nel mito della vecchia frontiera, sia pure in veste di contrabbandieri di whiskey durante il proibizionismo. Hue porta sullo schermo i tre fratelli Dorkel, in qualche modo simili per carattere ai tre Bondurant. Mange tes Morts racconta della loro vita nella comunità Jenisch, in contrasto con le altre etnie nomadi, delle loro tradizioni e di azioni delinquenziali senza ritorno. Il film ha in sé anche i connotati classici del western, coniugato con il polar francese, e un pizzico di road movie. Dei tre fratelli il più piccolo sente su di sé il peso del passaggio all’età adulta, della scelta religiosa in contrasto con la violenza del fratellastro, appena uscito di galera, che condurrà i suoi in un’adrenalinica terribile notte nel tentativo di rubare un quantitativo di rame, là dove vivono i ‘gadjo’, la gente comune il cui sistema sociale da sempre rifiuta i nomadi, li disprezza, li confina destinando la loro etnia a una fine annunciata, così come è per tutti coloro che vivono borderline, che sono diversi, che non accettano l’omologazione. Hue gira il suo film con attori non protagonisti e non sempre facili da gestire cinematograficamente e firma un’opera di indubbio fascino, tale da essere riconosciuto e apprezzato dal pubblico e dalla giuria del 32° TFF.
Dario Arpaio
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