Marigold Hotel, e la vita è bella

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Tutto può ancora succedere nelle nostre vite proprio quando più dura diventa la solitudine o le avversità che sembrano ripresentarsi drammaticamente puntuali, quasi a irretire ogni possibilità di sogno. A volte ci vuole solo più coraggio, con un pizzico di incoscienza, di innocenza. E il sole torna a sorgere da est, magari in India, a Jaipur, tra le mura del Marigold Hotel, un vecchio palazzo in decadenza che sembra trasformarsi e nutrirsi delle stesse gioie che sta per elargire ai suoi ospiti.

Casualmente le vite di sette inglesi si confrontano, si incrociano durante quello che era iniziato come una sorta di viaggio della speranza. Un alto magistrato gay, una vedova piena di debiti, una coppia scoppiata, un anziano tombeur de femmes, un’attempata signora in cerca del merlo, e un’acida inglese che più british non si può, così com’è spocchiosa e piena di pregiudizi verso tutto ciò che non sia bianco. Ciascuno con un proprio intento lasciano l’Inghilterra per arrivare in uno dei più improbabili e sgangherati hotel, gestito, oltre tutto, da un ragazzo, tanto sognatore quanto privo di capacità manageriali.

Il destino offrirà poi a ciascuno una via o una risposta insperata.

Marigold Hotel è il film che John Madden ha diretto dopo la splendida performance del suo Shakespeare in Love. Si è avvalso di un cast di grande pregio, che va da Maggie Smith a Bill Nighy, da Judy Dench a Tom Wilkinson, eccellenti tanto da dare forma e spessore a una vicenda corale, forse a tratti un po’ stereotipata, soprattutto nell’espressione di un’India da cartolina, chiassosa e colorata, misera, ma in fondo felice culla della serenità spirituale. La prima parte del film è scoppiettante e divertente. Perde un po’ di tono verso il finale, ma non si può non dire che non sia una commedia piacevole, seppure con qualche ambizioso tono drammatico frammentato. Qualche caduta di ritmo non nega l’applauso a un film gradevolmente sentimentale che rilascia speranza e gioia di vivere.

Dario Arpaio


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