Miracolo a Le Havre!
Di Dario ArpaioAki, fino a qualche mese fa, fumava tre pacchetti di sigarette al giorno. Ora è passato alla sigaretta elettrica, l’ultima ancora di salvezza per chi vuole provare a smettere. Peraltro per lui è insolito ricorrere a un ritrovato moderno. Aki mal sopporta le nuove tecnologie del nostro tempo. Quando è a casa sua, in Finlandia, viaggia su di un’auto del ’62. Usa un vecchissimo modello di cellulare, di quelli che si può solo parlare (poco) e basta, senza nessuna ‘app’. Aki rimane legato, anima e corpo, a un tempo andato dove tutto era (per così dire) più immediato, ‘fatto a mano’, schietto, semplice o no, ma pur sempre diretto, senza mediazioni verso qualcosa d’altro. Aki Kaurismaki però vive appieno nel suo tempo e forse è proprio per questo sceglie di fare un cinema a volte dolente, come ciò che può vedere il suo occhio in un caleidoscopio di miserie umane, di malinconiche solitudini. Il festival di Cannes gli ha sempre riservato buona accoglienza e apprezzamenti. Nel 2002 vince il Grand Prix Speciale della Giuria con il magnifico L’uomo senza passato. Poi arriva Le luci della sera, premiato altrove, il suo film forse più disperato. Infine scarta, cambia tono e registro con Le Havre, ma riceve solo una menzione speciale, proprio quando si mormorava che avrebbe potuto ambire alla Palma d’Oro 2011. Il suo ultimo film è appena uscito nelle nostre sale con il titolo, una volta tanto appropriato e ben calibrato, di Miracolo a Le Havre. Sì perché Kaurismaki adora il neorealismo dei De Sica e dei Zavattini e l’accostamento indiretto con la fiaba del ‘martinitt’ che si libra in volo sopra il duomo di Milano non è per niente inopportuno, né limitativo. Kaurismaki, con la sua vecchia macchina da presa comprata dal produttore di Ingmar Bergman, ha già girato decine di pellicole. Per lui quella macchina, forse un po’ obsoleta, è un prolungamento del suo occhio, anzi è lui stesso che si fa guidare. E’Aki che la segue. E’ lei che decide il da farsi. Paradosso? Forse, ma la tenerezza e la perfezione con le quali vediamo scorrere le immagini di vecchie case malconce, come quelle non da cartolina che circondano il porto di Le Havre, o le inquadrature che scivolano sulle cromature degli autobus di un tempo, o sulle fiancate di taxi Peugeot quarantenni, ci accompagnano, ci introducono in un mondo che non c’è, come se si approdasse a un’isola non trovata dove ogni respiro ha un ritmo diverso. Quello stesso che è la scelta di vita del protagonista, vecchio romanziere in fuga da Parigi che sceglie il mestiere di lustrascarpe. La moglie lo accompagna dolcemente, nella sua scelta bohémien. A loro basta un poco di pane amore e fantasia. I vicini, d’altra parte, sono tutti come loro, condividono le piccole gioie o i disagi quotidiani, senza nessun rancore verso la vita che scorre così, serena, fino quando intervengono due imprevisti. La moglie si ammala di cancro e il vecchio si ritrova a nascondere un ragazzino nero, fuggito dalla polizia e dagli altri disperati giunti nel porto francese, chiusi come lui dentro un container.
La trama di Miracolo a Le Havre, almeno per qualche aspetto, propone un ammonimento, uno sdegno simili a quelli espressi a gran voce dal maestro Ermanno Olmi con il suo ultimo film, Il villaggio di cartone. E’ come se Kaurismaki e Olmi, così apparentemente lontani l’uno dall’altro, fossero giunti, nello stesso tempo, alle stesse conclusioni sulla verità? In entrambi i film un uomo si rivolta contro il potere costituito per difendere gli ultimi, quei migranti che vengono dal mare con il volto nero clandestino e che fanno tanta paura alla gente perbene. Anche i poliziotti vestono sempre di nero, ma loro salvaguardano il quieto vivere della buona gente. A volte però eccedono in zelo. Tutti e due i film ci propongono delle figure che agiscono d’impulso in nome della vita, al di sopra e al di fuori di ogni legge, solo in nome della vita umana. Più incline alla tenerezza è il film di Kaurismaki, con tanto di happy end, ma senza scadere nel sentimentalismo. Il vero miracolo a Le Havre è quello che risveglia l’attenzione sulla dignità umana al di sopra di ogni sporco al quale il nostro quotidiano sembra assuefarsi.
Tutto di questo film di Aki Kaurismaki incanta, dai dialoghi, apparentemente leggeri, alla fotografia, alle scenografie, tutto. E’ come se un candido malinconico Keaton finalmente potesse parlare attraverso questo finlandese con la sigaretta elettronica in bocca.
Dario Arpaio
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