Noi Credevamo e ancora crediamo!
Di Dario ArpaioBen sette anni sono stati necessari a Mario Martone per riuscire nel suo Noi credevamo. Anni lunghi di sacrifici ripagati da una unanime standing ovation tributatagli dal pubblico della Mostra di Venezia, dove il film è stato presentato in anteprima nella sua versione integrale di circa quattro ore. Il film è stato poi ridotto a due ore e cinquanta minuti, per consentire una più adeguata diffusione delle (ahimè) pochissime copie oggi in circolazione nelle sale. Dopo Morte di un matematico napoletano (1992), dopo L’Amore molesto (1995), due tra le sue opere meglio riuscite, è come se il giovane regista napoletano avesse raggiunto il suo acme, in una compiutezza narrativa, una potenza espressiva e una perfezione rara nel portare sullo schermo una sceneggiatura che trasuda il coraggio della passione, senza tentennamenti, con il braccio proteso a sventolare una bandiera nella quale, oggi, pare che pochi abbiano fede davvero, disillusi da una classe politica quanto meno discutibile. Martone ci riporta, passo passo, dai primi moti carbonari fino all’alba dell’unità del nostro Paese, una nascita dolorosa della quale ancora oggi portiamo i segni. La sceneggiatura trae spunto dall’omonimo romanzo di Anna Banfi e ci offre il punto di vista di tre ragazzi affiliati alla Giovine Italia di Mazzini, intercalando le vicende dei singoli con i fatti di storia autentica, narrata secondo stilemi rosselliniani. Uno dei più emozionanti tracciati voluti dal regista è quello che ci porta a tentare di capire la nostra Storia, di penetrarla fino in fondo per andare a scoprire cosa c’è davvero in fondo al pozzo e da lì guardare in alto la luce senza essere distratti da altre proiezioni illusorie, mistificate. Noi credevamo è un cannocchiale sulla nostra Italia che, partendo dal passato, guarda lontano, e ciò che prima pareva un punto sull’orizzonte, diventa un chiaro oggetto di conoscenza.
C’è grande passione in tutti i personaggi del film e altrettanta forte delusione, ma lo stesso regista ci ricorda che non necessariamente il rapporto col dolore deve produrre tristezza, al contrario esso deve produrre guarigione, catarsi. Mi pare che siamo sofferenti come cittadini anche senza “Noi credevamo”. Vedere il film può dare una qualche ragione di questa sofferenza e darci una spinta nell’andare avanti.
Noi credevamo ricorda, emoziona, stimola, coinvolge e, soprattutto, genera speranza.
Dario Arpaio
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Abbiamo visto “ Noi Credevamo “ diretto da Mario Martone.
Sette anni per prepararlo e poterlo realizzare, sette sono circa i milioni che sono serviti per poterlo portare a compimento. Un “ colossal “ di tre ore ( quattro per la versione televisiva ), con un cast “ stellare “ per il cinema italiano. Un po’ come l’ultimo film di Tornatore, ma questo – anche se con una sceneggiatura non del tutto precisa e riuscita – è sicuramente un film forte e possente, senza bozzettismi, velleitarismi e slogan. Argomento essenziale della nostra storia, Il Risorgimento è stato visitato poco dal nostro Cinema e non sempre con efficacia: c’è sempre stato il rischio del ‘ santino ‘ o del didascalico se non del didattico. Ricordiamo i film di Visconti con il potentissimo “ Senso “ con il gusto per il melodramma e lo stile epico ideologizzato e con il ‘ fantasmagorico ‘ e mitico “ Gattopardo “ in cui Visconti cerca più che la Storia soprattutto la ricerca del mondo perduto. Ricordiamo Luigi Magni con i suoi film “ Nell’anno del Signore “, “ Il nome del papa re “, “ In nome del popolo sovrano “, “Arrivano i bersaglieri “ e “ La Carbonara “ in cui la romanità e ‘ il popolaresco ‘ smitizzano gli eroi e quei tempi. Ricordiamo, andando indietro nel tempo, “ San Michele aveva un gallo “ e “ Allonsanfans “ dei Fratelli Taviani, “ Bronte, cronaca di un massacro “ di Florestano Vancini. E poi il calligrafico “ Piccolo mondo antico “ di Mario Soldati che racconta le delusioni prodotte dalla conquistata unità e dagli ideali traditi, “ 1860 “ di Alessandro Blasetti del 1934 che si conclude con una imbarazzante e retorica visione delle falangi fasciste che sfilavano davanti ai reduci garibaldini. E poi, ricordando alla rinfusa, “I Viceré “ di Roberto Faenza “, “ Li chiamarono… briganti “ di Pasquale Squitieri, “ Il brigante di Tacca del lupo “ di Pietro Germi, “ Viva l’Italia “ di Roberto Rossellini, “ La pattuglia sperduta “ di Pietro Nelli, “ Quanto è bello lu murire acciso “ di Ennio Lorenzini, E altro ancora…
Abbiamo già scritto che “ Noi credevamo “ è un film potente e anche coraggioso, nonostante una forma algida e poco “ melodrammatica “ – ma questa è la cifra stilistica di Martone –, ma dobbiamo anche dire che se c’è una grave colpa questa è nella sceneggiatura; ed è un peccato mortale. Perché un ‘ operazione culturale ‘ del genere, in un’epoca di questo genere, richiederebbe un’attenzione maggiore, anche maniacale: Visconti si serviva di scrittori come Suso Cecchi d’Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa o Giorgio Bassani; Martone si serve solo di Giancarlo De Cataldo, uno scrittore legato a “ Romanzo criminale “ e a pochissime sceneggiature di gruppo, forse con un’esperienza e una professionalità non sufficiente per uno script di tale complessità epica, culturale e storica. A quanto pare Martone si è voluto caricare sulle spalle l’Epica della nostra Storia ed ha effettivamente rischiato in alcuni passaggi solo un esercizio di stile, se non di creare ‘ la meglio gioventù ‘ dei nostri bisnonni. Eppure la sceneggiatura è stata costruita sulla falsa riga di “ Rocco e i suoi fratelli “: un’introduzione ( la più confusa e lenta, che un montaggio più coraggioso avrebbe snellito e forse emotivamente più coinvolto lo spettatore ), i tre atti divisi sui tre protagonisti e il finale ( la parte più forte del film, più emotiva, più politica, più chiara e anche più teatrale ), anche se questo tipo di ‘interpretazione’ o svelamento dei lati bui e “osceni” del Risorgimento è stata già raccontata dai fratelli Taviani, da Vancini e da altri ancora. Altra scelta stilistica interessante ( ma non nuovissima ) è la ‘ marginalità ‘ dei tre protagonisti nella storia; lottano, pagano dei prezzi alti come il carcere o la morte, sono a breve contatto con Mazzini o Garibaldi, ma non condizionano o indirizzano la Storia.
Come gran parte dei film sul Risorgimento, anche “ Noi credevamo “ è tratto da un romanzo, di Anna Banti, pubblicato nel 1967. E’ la storia di tre amici del sud Italia, due figli della nobililtà agraria e un figlio di contadini agiati. Domenico, buono, silenzioso, coriaceo e coerente fino alla fine – l’unico che assisterà alla disillusione degli ideali; Angelo, instabile, inquieto che si trasforma in un fanatico estremista; e Salvatore, il figlio del popolo, concreto, caparbio, deciso.
Reagiscono alla repressione borbonica del 1828 giurando fedeltà alla Giovine Italia e agli ideali repubblicani e democratici di Mazzini. Una curiosità, ma come fa Mazzini che ha ventisei anni nel 1831 a essere come Toni Servillo ?
In una girandola di trasferimenti i tre passano tra Torino e Parigi, il sud Italia e Ginevra. Il primo, ripetuto e un po’ confuso temporalmente destino è giungere presso l’affascinante, sensuale e lucida politicamente Cristina Belgioioso che vive in esilio a Parigi dopo essere stata bandita dalla Lombardia, dall’Impero Autro-Ungarico. I tre amici partecipano o assistono al fallimento del tentativo di uccidere Carlo Alberto nonché all’insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questa delusione porterà i tre amici fraterni a prendere strade diverse e a creare una frattura irrimediabile. A questo punto partono i tre ‘ blocchi ‘ narrativi che riguardano i tre amici. Ma sarà con lo sguardo di Domenico che noi spettatori osserveremo l’evoluzione e il tradimento della lotta mazziniana e del cambiamento di ‘epoca’: se il giovane prende coscienza grazie alla repressione criminale delle truppe borboniche, perderà la speranza dopo decenni quando vedrà sempre i contadini uccisi e maltrattati dall’esercito piemontese e urlerà per la prima volta disperato quando un ufficiale piemontese farà fucilare dei garibaldini. In tutto questo c’è un Mazzini ieratico e distante, un Garibaldi lontano, un Filippo Orsini che prepara il complotto contro Napoleone III, la “follia” di Angelo, il carcere di Domenico assieme a Carlo Poerio, un Crispi concreto e complottatore “politico”. Su tutto questo lo scontro tra repubblicani democratici e monarchici.
Martone ritorna al cinema dopo sette anni, dopo “ L’odore del sangue “. “ Noi credavamo “ è diretto con sicurezza e ci regala alcuni momenti molto belli, alcune scene corali sono efficaci anche se sembra che narrativamente l’autore sia troppo interessato a dover rendere cinematografico il suo pensiero e le sue idee, mentre come regia prevale un’idea più teatrale e quando lo manifesta chiaramente – nella parte finale – sembra più compatto e coinvolgente. A
volte però non riesce a regalare quelle emozioni e quei sentimenti che un tempo i registi riuscivano a trasmettere al pubblico e far ‘nostri’ senza problemi. Un piccolo dettaglio da segnalare: ogni tanto compaiono strutture in cemento armato e scale moderne, non ci sembra del tutto sbagliata l’idea ma almeno potevano essere dei ‘ mostri ‘ più cinematografici.
Il cast d’attori risulta ricco e variegato, tra i tanti attori, tutti bravi e credibili, vanno segnalati Valerio Binasco ( Angelo, da adulto – lo ricordiamo in “ Lavorare con lentezza “, e “ La Bestia nel cuore “ ), Francesca Inaudi ( Cristina di Belgioioso da giovane – la ricordiamo in “ Dopo mezzanotte “ e “ Io, Don Giovanni “ ), Luigi Pisani ( Salvatore – al suo debutto al cinema ).