Oscar: noi tifiamo per Un gelido inverno

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Si avvicina la notte degli Oscar e noi qui a solocine, dopo averlo visionato, non possiamo far altro che tifare con tutta la nostra forza per Winter’s Bone (da noi uscirà venerdì 18 gennaio con il titolo di Un gelido inverno), piccolo film candidato a quattro premi Oscar tra cui quello per il miglior film, migliore attrice protagonista (Jennifer Lawrence), migliore attore non protagonista, migliore sceneggiatura non originale. Eccovi quindi una recensione, nella speranza di interessare quante più persone possibile a questo capolavoro.

UN GELIDO INVERNO
2010, USA, colore, 100 minuti
Regia: Debra Granik
Soggetto/Sceneggiatura: Debra Granik e Anne Rosellini (da un romanzo di Daniel Woodrell
Produzione: Anonymous Content, Winter’s Bone Productions

Missouri, contea di Ozark, nel peggiore white trash della bible belt, fra boschi e povertà, arretratezza e ignoranza.
Ree Dolly è una diciassettenne nei guai e non ha fatto nulla per meritarseli.
Suo padre, un produttore e spacciatore di crack di mezza tacca, in libertà con la condizionale, ha ipotecato la casa e non è comparso in tribunale.

Ancora pochi giorni e la ragazza, che deve accudire un fratellino e sorellina facendo le veci della madre che giace in casa fra il depresso e il catatonico, perderà la casa.

Ma la ragazza teme che il padre sia morto, ucciso da qualche altro clan famigliare rivale cui aveva pestato i piedi, e intende mettersi in cerca del genitore, anche a rischio di contrariare chi vorrebbe che certi segreti rimanessero ben nascosti.

“Ma non hai un uomo che faccia queste cose per te?” chiede qualcuno, a un certo punto della vicenda, esasperato, all’indomita, quieta, durissima e dolcissima Ree.

No, non ce l’ha, come sembra che non ce l’abbiano tutte le donne che compaiono in questo impressionante capolavoro di western entropico e gotico.

Donne che cucinano, che curano, che accudiscono e che picchiano in modo selvaggio, che tagliano la legna e parlano per i loro uomini, che aprono le porte e vegliano su case vuote anche quando sono piene di gente.

Non ce l’ha l’uomo, Ree.
Vorrebbe entrare nell’esercito ma non si può, ci sono i fratellini e la madre e non ci sono gli uomini. Che è anche meglio, se non ci sono uomini. Perché quando ci sono tiranneggiano, spacciano, uccidono, taglieggiano, si drogano e ubriacano.
Ti mettono incinta tre volte e poi, quando quasi impazzisci a saperli fra meth e prigioni, scappano con qualcuna meno sfiancata dalla vita.

Tanto poi ci sono le donne che raccolgono i cocci, no?
Donne bellissime, tutte, certo, ma non credo sia possibile, ai ragazzi cresciuti fra le veline, capire quanto siano belle le donne di questo film.
Che è opera difficile da recensire senza scadere nelle iperboli più folli, perché si piange parecchio e ci si commuove oltre il lecito durante la visione e buona parte di quel groppo in gola torna anche quando se ne scrive e si vorrebbe solo dire “guardatelo, vi prego, guardatelo” e finita lì.

E, con uno dei salti mortali più geniali di questo film, proprio quando cominciamo a pensare che tutti gli uomini siano così ecco che sceneggiatura e regia cambiano le carte in tavola, rendendo ancora più incisivo e valido il discorso di genere portato avanti lungo tutta la trama.

Con personaggi così potenti, così definiti e privi di facilonerie e stereo-tipizzazioni, Debra Granik (già, ci voleva una donna per portare sullo schermo donne così magnifiche) ha mezzo lavoro già in saccoccia e lo sa. Ma non per questo molla la concentrazione anche solo per un secondo e continua a martellare con violenza o a cesellare leggera su ogni singolo aspetto, aiutata da un reparto tecnico e un cast fuori dall’ordinario, come non se ne vedevano da anni.

Non c’è un singolo aspetto sotto la soglia dell’eccellenza in questo titolo imprescindibile per sfuggire dalle gabbie di troppo cinema contemporaneo.
Michael McDonough fotografa con livore e grigiore una serie di deserti apocalittici che fanno sembrare La Strada un film allegro e caramelloso, salvo poi giocare con il colore e i toni caldi quando serve, proprio un minuto prima che si cada nella disperazione.
Il montaggio di Affonso Gonçalves, oltre ad aiutare la narrazione dell’intera pellicola, determina e caratterizza intere scene di dialogo che non avrebbero brillato senza il suo apporto.
Lo scouting sulle location è stato fatto da un falco con venti decimi e costumi e interni alle volte rubano la scena agli attori.
E la musica…

Attori che bisognerebbe premiare uno per uno, tutti: non potendo, bisogna offrire tutto il nostro respect a figure di solito in ombra perché mai come in questo film si può notare la potenza di un casting svolto con serietà e professionalità, così come hanno saputo fare Kerry Barden e Paul Schnee, che individuano tutti i volti adatti con acume sovraumano.

E cosa altro, cos’altro ancora?
Beh, certo, pur non nominando gli attori bisogna fare eccezione per lo strapotere di Jennifer Lawrence, che promette legnate nei denti a tutte le sue coetanee anche a mani legate e corpo infagottato: è nata una stella capace di sguardi che raccontano ben di più delle poche, lapidarie parole che le sentiamo pronunciare di quando in quando.
Seconda e ultima eccezione (ma anche gli altri sono bravissimi, ok?) per John Hawkes; non posso credere che sia lo stesso attore che ho visto in Me, you and everyone we know: metamorfizza peggio di Mystica, giuro!

Questo è il western ora, questo è il new southern gothic ora.
O meglio, no, non proprio southern, manca la componente lussureggiante, manca la sensualità, è tutto più morto e congelato, meglio parlare di new boreal gothic, un posto mentale dove una ragazza tutta d’un pezzo, “bread ‘n butter” come lei ama ripetere, educa i suoi fratellini a sparare agli scoiattoli per poi scuoiarli, sventrarli e mangiarli (fritti però eh, lo stufato ai bimbi mica piace tanto) e non ha paura ad affrontare i temutissimi maschi locali.

Ma no, non è vero, paura ne ha tanta, tantissima: è solo da lì che può nascere il coraggio.

E parlando di paura, questo manifesto neo-femminista disseminato fino alla nausea di mamme (e sorelle, e amiche) grizzly ne è pieno, ne puzza proprio a ogni fotogramma.
Una paura, un terrore, un’ansia che opprime sempre, che aspetta in agguato non appena si esce dalla porta di casa (e forse è anche per questo che si lotta con tale caparbia per conservarla, quella casa) e ci si avventura in un paesaggio dove pneumatici, carcasse di auto e laboratori di meth esplosi lottano palmo a palmo contro una vegetazione sepolcrale e sterile, un cimitero abbandonato persino dai morti e dai fantasmi.
Nei boschi necrospettrali di una delle contee più povere degli USA (The per capita income for the county was $17,302. About 16.10% of families and 21.60% of the population were below the poverty line, including 30.80% of those under age 18 and 17.20% of those age 65 or over. Serve che traduca?) echeggiano, continui, gli spari dei bracconieri e degli affamati, ma sembrano più i rumori di una guerra poco distante. Guerra fra consanguinei, ovvio.

Paura quando si sta fuori dalle case delle persone e la porta si apre.
Paura di ogni gesto e di ogni parola.
Paura della cocaina e dell’alcool, paura delle armi.
Paura che porta rispetto: “inginocchiati, come se pregassi”, dice Ree mentre insegna a sparare a suo fratellino…

Le donne hanno bisogno come dell’ossigeno di un film che le ritragga così, gli uomini ne hanno bisogno ancora più di loro per capire determinate cose e spurgarsi il cervello dai rifiuti radioattivo-catodici.
E forse, visti ahimè i tempi e il materiale umano, un film può fare più di un libro, e ora uccidetemi pure.

Torniamo però alla paura, che talvolta si trasforma in terrore e, a questi due psicofratelli, si aggiunge anche il cuginastro orrore in una memorabile scena che coinvolge alcune donne, una barca, una motosega e altro ancora in un momento di cinema fra i più efficaci cui abbia assistito negli ultimi anni.


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