To the Wonder, ovvero di Terrence Malick e dell’Amore
Di Dario ArpaioL’ultima fatica di Terrence Malick, To the Wonder, è stato parimenti fischiato e applaudito alla sua apparizione all’ultimo Festival di Venezia. Addirittura da taluni critici decisamente stroncato. Ha diviso il pubblico. Tanti, e ripetuti, sono stati i ‘ma cos’è!’, ‘ci prende in giro!’, ‘è un film sconclusionato, senza trama!’. Eppure della tensione di Malick, verso la ‘meraviglia’ del titolo, qualcosa impressiona l’animo di ogni spettatore che volesse lasciarsi catturare, senza pregiudizi, dalle immagini che rappresentano il senso della riflessione profonda del regista nel suo percorso attraverso il significato dell’Amore, sia esso passione, carnalità, oppure spiritualità, vivendo quella notte oscura che la fede in un credo religioso, prima o poi, reclama. Qualcuno gli ha addirittura rinfacciato la sua passata esperienza di docente di filosofia al MIT e la traduzione in inglese de L’Essenza della Ragione di Martin Heidegger, come a volergli significare che il cinema è altra cosa, che va vissuto solo in uno script con tanto di trama e dialoghi rappresentativi di un senso compiuto.
Terrence Malick è personaggio schivo, non concede interviste, detesta la televisione, ritenendola diseducativa, non partecipa alla mondanità. Vive del suo pensiero. Lo traduce in immagini. Lo vive nei suoi film. Gira ore e ore di pellicola per poi tagliare e tagliare ancora in fase di montaggio intere sequenze per giungere al risultato finale in una essenzialità tipica della sua filmografia. Per Tree of Life, che si può ritenere il prequel di To the Wonder, ha addirittura impiegato due anni per la fase di montaggio. Tagliando e tagliando ancora, anche la presenza di attori famosi. Dopo le riprese de La sottile linea rossa, che ha segnato il suo ritorno alla regia dopo quasi vent’anni di silenzio, aveva eliminato sequenze dove apparivano attori come Mickey Rourke, Gary Oldman, Viggo Mortensen, Martin Sheen. Altrettanto ha ripetuto con To the Wonder, tagliando il girato con Jessica Chastan, già protagonista di Tree of Life, nonché quelllo con Rachel Weisz e altri.
La genialità di Malick sta nel tradurre compiutamente in immagini ciò che il suo pensiero orchestra. La parola è inefficace dove meglio possono esprimersi volti, ombre, luci, colori, suoni.
To the Wonder è il discorso di Malick sull’amore nelle sue declinazioni. Prende il via con l’innamoramento dei due protagonisti, Ben Affleck e Olga Kurylenko, meravigliosa per leggerezza in tutto il film. Si abbracciano, si cercano, si rincorrono prima a Parigi, dove vive la donna, per andare poi a Mont Saint Michel, forse identificabile con la Meraviglia del titolo. Lì subiscono il fascino dell’arrivo dell’alta marea che tutto copre, così come anche il loro amore che, una volta andati negli Stati Uniti, dove vive lui, non rinasce con la stessa intensità. Forse è proprio questo il culmine, il momento di crisi, a rendere ineffabile l’amore stesso nella donazione totale di sè. La passione si vive anche fortemente nel dolore del distacco senza rimedio, nell’ineluttabilità. Così come lo può vivere il prete che compare nel film, interpretato assai intensamente da Javier Bardem, travolto nella sua missione dal contrasto con la miseria del nostro tempo che deve affrontare senza riuscire a coniugare l’amore cristiano vivo, combattuto com’è tra le parole e i fatti. Quindi è la crisi a rendere unico l’amore nella sofferenza, o sono quei pochi intensi momenti di leggerezza a rendere la vita compiuta?
Malick non offre risposte, così come per Tree of Life, propone interrogativi. Cos’è questo amore che ci ama? Dov’è?
Come sempre nei suoi film, sono le voci fuori campo a scandire il passo della narrazione, piuttosto che i dialoghi, come a voler significare che il non detto, ciò che ci portiamo dentro, è il luogo dove dimora la verità della nostra umanità così meravigliosamente fragile.
Dario Arpaio
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