Pina Bausch e il Tanztheater in 3D

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Wim Wenders incontra per la prima volta Pina Bausch nel 1985 dopo aver assistito a una delle sublimi coreografie del Tanztheater. Nasce un’attrazione forte tra i due artisti che li porta nel tempo a pensare alla realizzazione di un docufilm sul lavoro del gruppo di ballerini arcifamoso per le sue perfomances di teatro-danza. Wenders avrebbe seguito il Tanztheater durante una delle tante tournée in giro per il mondo, così da filmare un soggetto, per così dire, on the road.

Improvvisamente Pina Bausch muore nel 2009 lasciando un incolmabile vuoto nel mondo del teatro e della danza. Successivamente Wenders, dapprima riluttante, riprende in mano il progetto spinto da amici e dalla compagna di Pina. Così nasce il film documentario intitolato semplicemente Pina sulla figura e l’opera della più grande ballerina, coreografa, regista del secolo scorso. La sceneggiatura viene riscritta da Wenders che elabora la struttura di un lungometraggio girato in 3D. Due macchine da presa sul palco inquadrano in primo piano i vari ballerini storici del gruppo, indugiando sui loro volti. Loro stessi ricordano, raccontandosi in prima persona, tutto l’amore sconfinato per la regista, per quella donna così esile, minuta eppure granitica nella sua volontà d’arte. Wenders ha trasformato l’occhio della camera quasi a riproporre lo stesso sguardo profondo di Pina. Uno sguardo capace di entrare nel più intimo recesso dell’anima dei suoi ballerini, portandoli a essere essi stessi danza e amore. “Dance, dance otherwise we’re lost!”. Ballate per vivere, per non morire, per dare amore, per essere amore. Questo, in sintesi, è stato il motore di ogni attimo della vita di Pina, presente più che mai in ogni gesto dei suoi amati danzatori, ai quali ha cambiato letteralmente il modo di vivere e non solo di danzare, protetti da lei stessa, in un completo e totale affidamento reciproco. Wenders sceglie, per la prima volta nella sua carriera, il 3D, strumento inflazionato dal cinema commerciale, dai cartoni agli action movie, proprio cercando di esprimere, a tutto tondo, la danza così densa di quei corpi, fino registrare i più piccoli e minuti movimenti delle dita, di un braccio, di una caviglia capaci di riempire lo spazio dello scena e suscitare la nostra emozione di spettatori.

Nel film non si racconta tutta l’esperienza, la storia di Pina Bausch. Non vengono narrati gli esordi negli anni ’60, con i balletti tesi a criticare il sistema, né come la grande artista, man mano sposta il suo interesse al profondo dell’anima dell’essere umano e della sua presenza fisica nel mondo che lo circonda. C’è lei com’era, c’è il Tanztheater con quattro dei suoi balletti. C’è la sua città d’adozione, Wuppertal, con una grande fabbrica, o con la ferrovia sospesa, con la campagna circostante, con le vie, con i passanti. E i suoi ballerini sanno di esserci in forma di luna, o di sole d’inverno, d’estate, d’autunno, di primavera, declamando con i loro passi una infinita poesia di vita.

Wim Wenders è riuscito a fare conoscere il genio di Pina Bausch con un film semplice, essenziale eppure complesso, commovente e intenso, capace di attrarre l’ammirazione anche di coloro ai quali la danza poco interessa.

Lei, sempre schiva e restia a farsi intervistare, ha detto: “Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti, ma ci sono anche i momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più cosa fare. A questo punto comincia la danza”.

Dario Arpaio

 

 


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