On the Road: meriti e limiti del film di Walter Salles
Di Dario ArpaioFrancis Ford Coppola acquista nel ’70 i diritti del romanzo On the Road di Jack Kerouac, scritto nel ’51 e pubblicato nel ’57, che racconta le scorribande senza freni di alcuni amici tra la East e la West Coast. Operazione azzardata anche solo pensare di portare sullo schermo quella scrittura apparentemente semplice, ma capace di ricalcare il ritmo del sax di Charlie Parker, intima, sofferta oltre ogni limite, scritta dal suo autore su di un rotolo di carta da copiatrice in sole tre settimane di trance creativa.
Nel ’57 Kerouac era diventato famoso grazie a quel libro che incarnava la voglia di libertà dei giovani per fuggire dagli schemi di una società sempre più volta verso un benessere fasullo, destinato al consumismo e all’apparire. Da quel momento e fino al 69, anno della scomparsa di Kerouac, per lui fu un continuo alternarsi di trionfi e di tonfi, osannato prima e vituperato poi dalla critica, quella stessa che, in altri panni, oggi, forse, non accetta fino in fondo la presenza sullo schermo di quel romanzo, il cui contenuto è certo molto lontano dal costume odierno, peraltro, ancora più omologato e dal gusto peggio massificato di allora.
Coppola invece ci prova come produttore e pensa in un primo tempo a Gus Van Sant per la regia di On the Road, arrivando poi al brasiliano Walter Salles, reso famoso dal bellissimo Central do Brasil, non ripetendosi nel successo con I diari della motocicletta. Salles accetta la proposta di Coppola e si butta a capofitto nella sceneggiatura. Ci lavora per quasi cinque anni con José Rivera, addirittura girando un documentario Looking for On the Road, andando alla ricerca dei percorsi che furono di Kerouac, avanti indietro tra l’Est e l’Ovest, ricercando i pochi segni rimasti di quelle strade descritte nel libro cinquantacinque anni prima. Alla fine Salles sceglie di seguire quasi letteralmente il libro e i suoi personaggi. Impresa ambiziosa quanto rischiosa, da molti criticata nel risultato finale.
On the Road non è un capolavoro della letteratura moderna, è uno scorcio di vita vissuta, un diario che è stato capace di coinvolgere e appassionare più generazioni. E’ la cronaca del sogno e della ricerca della libertà, vissuta nei meandri di una creatività sofferta fino nel midollo dell’anima, attraversando tutto ciò che può capitare ogni santo giorno, di previsto e di imprevisto, tra marijuana e alcol, da una donna all’altra, accompagnandosi con le note del jazz, quello esploso, libero da vincoli stilistici, nel dopoguerra dalle note di Parker e di Mulligan. Qui sta, forse, il vero limite del film di Salles, ovvero non riuscire fisiologicamente a far riemergere e trapelare la stessa insofferenza nei confronti di una società fasulla che spingeva Kerouac, Ginsberg e gli altri della beat generation a cercare e ancora cercare senza mai fermarsi. Cosa? Non aveva e non avrebbe grande importanza. Era la ricerca del senso della vita che spingeva a non rallentare la corsa, anche senza conoscerne la meta, trasgredendo, ridendo e piangendo di se stessi.
Il film di Salles tenta di cavalcare quest’onda. E’ sicuramente forte nel cast. Perfetti tutti gli interpreti, compresa Kristen Stewart (Marylou), finalmente attrice libera dai ruoli da soap opera vampireschi. Emerge in particolare Garrett Hedlund nel ruolo del grande ammaliatore Dean. Altrettanto espressivi Sam Riley (Sal, ovvero Kerouac stesso) e Tom Sturridge (Carlo Marx), per lui era davvero difficile riuscire a vestire con garbo i ruvidi panni di Allen Ginsberg. Altri nomi, come per esempio quello di Viggo Mortensen (Old Bull/William Burroughs) e Kirsten Dunst (Camille/Carolyn), sono probabilmente serviti solo da richiamo per il grande pubblico.
Tante le voci che si sono affaccendate a (s)parlare di questo film. L’unica e sola che avrebbe avuto titolo nel farlo sarebbe stata Fernanda Pivano, che conobbe Kerouac, che lo ospitò in più occasioni, lo protesse, lui come gli altri grandi della Beat Generation, divenendone amica e sorella, unendo il suo grande cuore a un senso critico letterario raro, appassionato quanto lucido e profondo. Fu proprio la Pivano a condurre l’ultima intervista televisiva a Kerouac nel ’66, della quale è fortunatamente disponibile il video su YouTube.
On the Road di Walter Salles va visto, senza pregiudizi, come un omaggio, devoto e accorato, a un autore unico e mai abbastanza compreso come Jack Kerouac, troppo spesso confuso con ciò che si può definire solo semplicisticamente inquietudine adolescenziale, senza mai riuscire svelarne fino in fondo i reali turbamenti creativi ed esistenziali. Un film non potrebbe mai riuscirci.
Forse solo Ginsberg ha davvero compreso il suo amico (che neppure lo amava molto), lasciandoci di lui un ricordo commosso, scritto d’un fiato, subito dopo il funerale di Kerouac:
Jack il Mago nella sua tomba
a Lowell per la prima notte
quel Jack attraverso i cui occhi
vidi
smog splendore e luce
oro sulle spire di Manhattan
non vedrà mai questi camini fumanti
mai più sulle statue di Maria
nel Cimitero.
Dario Arpaio
Commenta o partecipa alla discussione