The Palermo Shooting, Wim Wenders
Di Dario ArpaioWim Wenders, o si ama, o si odia. Non esistono mezzi toni. C’è chi venera il genio cinematografico che ha trascorso nottate intere alla Cinémathèque di Parigi, vedendo anche cinque film per volta, succhiando, assorbendo tutto ciò che di filmico è conservato in quell’archivio un po’ magico, fino a farsi un suo proprio linguaggio, inconfondibile, non codificabile. C’è altrettanto chi, mestierando, critica, ma solo la superficie delle sue opere, tutte diverse, per nulla accostabili le une alle altre. Ho anche letto sul Mattino di Napoli che quest’ultimo film di Wenders, Palermo Shooting, sarebbe saturo di goffaggini… L’articolista arriva a voler confondere l’omaggio a Bergman con un’imitazione delirante, ma per favore!
Ma andiamo con ordine. Wenders ha scritto, diretto e prodotto la sua nuova opera pressocché da solo, così da essere libero di esprimersi senza vincoli, come a un certo punto Finn, il fotografo protagonista del film, in preda a una limacciosa crisi esistenziale, decide di cercare un luogo diverso per ritrovarsi o per fuggire. Si allontana dal circo della moda con il pretesto di ritrarre altrove la sua modella Milla Jovovich, incinta e bella come non mai. Basta con gli scenari artificiosi, via gli sfondi di cartone o le comparse irrigidite in costumi impossibili. Wenders va a girare a Palermo, forse cercando qualcosa che c’era anche sulla strada di Antonioni, o sull’isola delle ossessioni bergmaniane. Lui li ha con sé entrambi, se li porta dentro. Mentre è sul set apprende della scomparsa dei due grandi geni, uno a poche ore dall’altro, e rende loro ossequio con Palermo Shooting. Un film fatto di fotografia e musica, simbiotiche come non mai. Palermo è calderone perfetto in cui mescolarle. Wenders ci ha vissuto nel ’68 conservandone vivo un ricordo dai colori accesi. La Vucciria o Ballarò possono esistere solo lì, tra quel barocco che ne esalta gli odori e le forme. E’ lì che il regista può muoversi a proprio agio (gira sempre con uno script approssimativo) per condurre il suo protagonista, per farlo emergere dal profondo del suo stesso animo fino a sorprenderlo, basito, dinanzi al Trionfo della Morte. Da un lato recita la macchina del fotografo, una Plaubel Makina 6×7, una camera del passato, dalla quale non si separa mai per cercare di sconfiggere la sue paure inconsce. Dall’altro vive l’affresco, opera di un anonimo del ‘400, che prelude all’entrata in scena di un personaggio diafano e misterioso che si rivelerà essere la Morte, già compagna di viaggio di quel magnifico Max Von Sidow nel Settimo Sigillo. La stessa morte che per Wenders si chiama Frank, un perfetto Dennis Hopper, che insegue il protagonista già da Dusseldorf, da dove si muove la storia, per giungere a Palermo là dove la giovane Flavia, dolce e segreta Giovanna Mezzogiorno, è impegnata nel restauro dell’affresco del Trionfo. Per il fotografo Finn non c’è sonno, solo sogni ricorrenti, dove la madre scomparsa lo circonda, lo perde. Gli amici sono lontani, Flavia è vicina. Con gli amici si gioca alla dolce vita, tra un amoretto e l’altro. Flavia invece è capace di ascoltare le sue paure più recondite. Fino al punto di arrivare a vederlo lei pure quel Frank incappucciato quando fa scoccare verso Finn le sue frecce misteriose, trasparenti e letali. E Palermo se ne scivola via, assente, gelosa dei suoi segreti. La fotografia è la vera protagonista del film, lei ci fa scrivere nella luce ciò che i nostri occhi scorgono per un attimo soltanto. Con lei si può fermare il tempo, ma quello della morte è altra cosa, è una freccia scagliata dal futuro attraverso una porta che conduce altrove. Non è fine, ma principio. Questo ho visto nell’ultimo Wim Wenders in Palermo Shooting. Dimenticavo, Finn è interpretato da Campino, un cantante rock molto famoso in Germania.
Dario Arpaio.
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Un altro colpo andato a segno: che dire? C’è il riassunto, c’è il saggio sull’autore, c’è il commento finale sempre molto discreto. Un lettore che vuole documentarsi non potrebbe avere di meglio: l’unica cosa che gli resta da fare è sicuramente di andare a vedere con i propri occhi questo ennesimo capolavoro wenderiano. Bravo Dario!