The Wrestler

Di

the-wrestler.jpgRandy “The Ram” Robinson. Randy l’Ariete ovvero The Wrestler secondo Darren Aronofski. Non c’è patta per Mickey Rourke e per il suo personaggio nei vent’anni che lo separano dalla gloria ai match di periferia. Sono la stessa persona. Hanno lo stesso passo. Per Randy e Mickey c’è solo il disperato bisogno di un riscatto nella vittoria, del fiato della folla, del suo applauso. Sono trascorsi cinque minuti dall’inizio del film e The Wrestler non si è ancora visto in faccia. Lo seguiamo e basta. Lui è la sua schiena, il suo passato. Oggi raggranella poche lire con i suoi incontri e non gli bastano neanche a pagare l’affitto di una motorhome. Dorme nel retro del suo furgone tutto scassato. Ingurgita pillole. Vive nel passato, nella gloria, l’unica per il riscatto del gladiatore. Torna alla mente il personaggio di Proximo ne Il Gladiatore di Ridley Scott. E’ stata l’ultima grande intensa interpretazione di Oliver Reed che se ne è andato, come forse avrebbe voluto, bevendo (restano famosi i suoi eccessi) in un pub di La Valletta durante una pausa di lavorazione del film. Ora quel pub è stato battezzato, con dubbio gusto, “Ollie’s Last Pub”. Ebbene, Proximo incita i suoi gladiatori, racconta loro l’odore dell’arena, il silenzio della folla che esplode nell’applauso per il sangue (crudelmente) versato. Ma di tutto ciò vivono i gladiatori. Si alimentano del grido della folla che vive in loro. Non c’è spazio per altro nella loro vita. Marcia o crepa. Randy The Ram ci prova ad avere un’altra chance, ci prova a cercare un’altra via. Per lui c’è solo il ring, gli incontri, l’abbraccio virile dello spogliatoio pur nella farsa del sangue farlocco. Non mi interessa cosa sia davvero il wrestling, se vero sport o solo farsa atletica. Il vero autentico leit motiv del film è lui, Mickey Rourke e la sua storia anche se offerta in un rigurgito reganiano. Come dire l’America siamo noi, abbiamo sempre una seconda chance, siamo invincibili anche contro l’Ayatollah, nome di battaglia non casuale dell’acerrimo avversario di Randy The Ram. Comunque sia Mickey Rourke offre di sé una prova d’attore mai raggiunta a questi stessi livelli nel suo passato artistico. Merito di Aronofski certamente, ma anche e soprattutto dello stesso vissuto di Rourke. Di quel suo inseguire la fama (e la libertà) boxando sul ring. Ma nel film, dopo un infarto improvviso, a Randy The Ram non resta che guardare sconsolato il suo stropicciato costume da wrestling. Per sopravvivere non c’è che un impiego come commesso in un supermercato. Mio Dio, Ram, ma dov’è finita la voglia di combattere? Dov’è il tuo coraggio? E la sfida? Non hai nessuno insieme con te. Non ti raggiunge (se non all’ultimo, troppo tardi) la piccola Marisa Tomei nella sua struggente performance di ballerina di lap dance. Non ti vuole, non ti riconosce Evan Rachel Wood (bravissima), la figlia che non c’è ma stata prima per te che vivevi solo per il tuo pubblico. Ma il medico è stato chiaro e conciso Randy, se torni sul ring, muori. Ebbene che altra via rimane al gladiatore se non quella di scegliere il momento della propria fine, fermando per sempre l’urlo del pubblico in quell’ultimo disperato volo d’angelo verso…
Ma non temere, Randy, non sarai solo anche se, come diceva Proximo, non siamo che ombra e polvere. Ombra e polvere.
Grande insperato inatteso ritorno di Mickey Rourke in un ruolo che sembra essersi sparato addosso con una cucitrice pur di compiacere il suo pubblico. Evviva per il Leone d’Oro che gli ha dato Venezia. Evviva per un uomo ritrovato. Bravo anche Darren Aronofski, il regista, che ha saputo raccontare una storia senza fronzoli, essenziale, scarno, intenso come il miglior Hemingway.

Dario Arpaio


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