Tornando ancora a Shutter Island
Di Dario ArpaioDavid Lehane era già pronto per Martin Scorsese. E’ come se fosse stato sempre pronto per il grande cineasta newyorkese. Fin da quando altri suoi romanzi sono andati soggetti per il cinema: La morte non dimentica è diventato l’indimenticabile Mystic River di Clint Eastwood; La casa buia è stato Gone Baby Gone, la prima – buona – prova di Ben Affleck dietro la macchina da presa.
La visione di Lehane scrittore di thriller è irrimediabilmente cupa, come un impermeabile fradicio di pioggia sporca. Un salto nel buio dove non c’è spazio per la redenzione. Non c’è via d’uscita. Si può solo constatarlo il male, restando lucidi, inermi e senza difese.
Da L’isola della paura di Lehane ha preso corpo lo script di Shutter Island per la firma di Laeta Kalogridis, offrendo a Martin Scorsese la possibilità di un’altra grande prova d’autore. Così è stato.
Shutter Island ha diviso critica e pubblico. Chi ha amato di più altri titoli di Martin, da Taxi Driver (1976) a The Departed (2006), non ultimo Al di là della Vita (2000), esprime un certo disappunto sulla riuscita di Shutter Island, non ritrovando in quest’ultimo la stessa forza espressiva dei precedenti. Chi invece apprezza ed esalta la prova registica quando sintetizza gli stilemi dell’espressionismo tedesco, o certe atmosfere gotiche e rarefatte di alcuni grandi come Orson Welles o l’intrigo angoscioso alla Hitchcock.
Ma credo che nulla possa essere attribuito a Scorsese che non sia già proprio di Scorsese. Nella sua foga espressiva sperimenta continuamente, cambia registri e intonazioni, e, alla fine, rimane sempre solo Martin Scorsese, un grande cineasta. Assolutamente unico.
In comune con Lehane ha una visione certamente non edulcorata della realtà. Nelle sue opere la violenza è il male oscuro che ognuno porta in sé e di quel male ci nutriamo. E se invece fossimo noi stessi nella nostra natura ad alimentare la bestia?
La trama si svolge intorno alla vicenda, apparentemente investigativa, del personaggio dell’agente federale interpretato intensamente da Di Caprio. (tra l’altro ho notato in varie recensioni che il suo Teddy veniva identificato di volta in volta come ‘sceriffo’, ‘capo della polizia’ e altro ancora. Buffo vero quanto sia facile disinformare?)
Dall’avvio del film, con la splendida sequenza iniziale, quando la prua del battello buca la nebbia, sulla musica che anticipa un ancora inespresso carico di angoscia, Di Caprio via via si attorciglia su se stesso, nel suo personaggio esprimendo un intenso spessore drammatico, frutto del grande lavoro con Scorsese.
Scorsese-Di Caprio, da Aviator a Gangs of New York a Shutter Island, rappresentano certamente e fortemente gli esiti di un esemplare cammino cinematografico.
Il film ci porta, ci trascina nell’intreccio cupo della follia sfociata in una tragedia familiare, e lo snocciola attraversando ogni anfratto dell’isola, dalle mura manicomiali fino alle rocce scoscese per giungere di fronte all’incubo del faro, monolite di paura. Lì si giocherà tutto.
Come non ripensare a Jimmy Stewart e a Kim Novak o a Joseph Cotten che insegue il suo fantasma ne Il ritratto di Jennie (1949)?
E’ l’omaggio che Scorsese fa al grande cinema del passato, interpretando ogni inquadratura con una perfezione certosina che gli è propria.
Are you talkin’ to me? … Hei! Are you talkin’ to me?…
Alcuni hanno criticato proprio questa magnifica ossessione del regista nei confronti dell’immagine, che, di fatto eleva forma e contenuto a una dimensione pittorica. Nulla è lasciato al caso in ogni dettaglio. Tutto Shutter Island sta in una corsa nel delirio del protagonista, in un mosaico che si compone e scompone di continuo, avanti e indietro, su e giù per i gradini di una scala a chiocciola sospesa sull’inferno. Fino all’epilogo quando sorridendo Di Caprio dirà: «Decidi se vivere come un mostro o morire come una brava persona».
Un forte plauso è doveroso per la squadra di Scorsese. Straordinaria, a dir poco, la fotografia di Robert Richardson (Al di là della vita; The Aviator; Kill Bill) che ha dato un taglio stupendo alle scene del nostro grande Dante Ferretti.
Dario Arpaio
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