Urlo, forte e disperato

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Urlo di Rob Epstein e Jeffrey Friedman è un film coraggioso e ben fatto. Talentuosa è l’interpretazione di James Franco che dà il volto ad Allen Ginsberg.

Urlo, girato in soli 14 giorni, racconta del grande poeta, della beat generation e della prima recita del poema Howl, la quale ebbe l’effetto di un vero e proprio urlo quando, il 13 ottobre 1955, venne scaraventato su di un’America più attenta alla caccia ai comunisti, veri o presunti, che non all’ascolto di qualche poeta drogato e omosessuale. Un’America che avvertiva gli incubi della guerra fredda e si avviava speranzosa verso il Welfare State. La popolarità di Ginsberg crebbe a dismisura nel 1957, quando Lawrence Ferlinghetti, altro grande esponente di quel gruppo di poeti disperati, diede alle stampe il poema dell’amico, in poco più di 500 copie. Ferlinghetti venne arrestato, processato per oscenità e assolto. Alla fine del processo tutto il Paese era venuto a conoscenza di Ginsberg, e di Corso, Kerouac, Amram, Orlwoski, Burroughs e dello stesso Ferlinghetti, il quale, oltre ai meriti artistici, ebbe anche quello di aprire, a San Francisco, la prima libreria dedicata alla distribuzione di libri tascabili a basso costo, un’autentica rivoluzione per quei tempi.

Sono loro i veri protagonisti dell’Urlo, benché il poema sia stato dedicato in prima persona da Ginsberg a Carl Solomon. Loro, i beat, che vivevano così fortemente e intensamente, accompagnati dal ritmo del be-bop di Charlie Parker, andando ovunque, da una sponda all’altra del Paese, con la smania di raggiungere una meta non conosciuta e mai scoperta, se non sotto gli effetti devastanti dell’alcol e del pejote. Dei veri e propri randagi della poesia in un sistema raffigurato da Ginsberg stesso come il Moloch che richiede il sacrificio estremo, il dio dollaro nella sua manifestazione più spietata.

Dobbiamo andare e non fermarci finchè non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so ma dobbiamo andare, dice Kerouac nel suo romanzo On the Road. Tutti destinati a un viaggio dantesco secondo Gregory Corso, l’altro sublime dannato poeta del gruppo. Tutto questo e altro è in fondo al cuore dell’urlo di Ginsberg.

Il film, già presentato al Sundance e a Berlino, si sviluppa su tre piani, il processo del 57 (ricostruito fedelmente sulla base degli atti), il flashback della recita del 55, e un’intervista dove Ginsberg racconta teneramente e drammaticamente, della sua vita, della sua omossessualità. La parte più accattivante è forse quella della recita che si sviluppa e si stacca sulle forti animazioni di Eric Drooker affiancato da altri graphic novelist della west coast. Peccato che i due registi lascino ben poco spazio alle figure di Kerouac o allo stesso Ferlinghetti, forse più coinvolti dai temi dell’omosessualità che non dal movimento artistico nei suoi protagonisti.

La visione del film non è per tutti, la poesia non è per tutti, siamo troppo concentrati in altro e altrove. D’altra parte proprio Ferlinghetti ripete, ancora oggi, che la poesia è come un vaso di rose, non si deve e non si può spiegare.

Dario Arpaio


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