Woodstock secondo Ang Lee
Di Dario ArpaioTaking Woodstock, o come si vuole nei nostri cinema, Motel Woodstock, è la trasposizione che Ang Lee (quello di La Tigre e il Dragone e di Brokeback Mountain) ha fatto del romanzo autobiografico di Elliot Tiber e di come e quanto hanno significato per l’autore i fatti che ruotarono intorno alla preparazione del più grande concerto rock del XX secolo.
1969. Gli Stati Uniti hanno appena fatto volare tre astronauti fino alla luna e i marines muoiono in Vietnam. Il mondo dei giovani è pervaso da un’irrequietezza anelante a un cambiamento epocale dei costumi borghesi che influirà, di fatto, solo marginalmente sul modo di vivere futuro. In quegli anni il loro è un grande variopinto movimento di libertà, di pace e amore capace di dilagare ovunque, una vera e propria pandemia, una febbre di gioiosa utopica anarchia presto digerita, fagocitata dal consumismo, dal business.
L’unica espressione di libertà che resterà di quel movimento rimane solo nei documenti dell’epoca, nel rock vivo e immortale, e, soprattutto, nel ricordo di coloro i quali direttamente o marginalmente hanno vissuto la febbre di quegli anni. Proprio come è per l’Elliot del libro e del film. Lui vive nel nord dello stato di New York con i due anziani squinternati genitori, lei irrascibile avida e possessiva, lui rassegnato. Insieme gestiscono un fatiscente motel. Elliot fa del suo meglio per venire a capo del totale dissesto economico della sua famiglia senza avere le idee ben chiare né su stesso, né sulla vita e tanto meno sul dove andare a trovare la somma di denaro reclamata dalla banca. Casualmente viene a essere coinvolto come parte attiva nell’organizzazione di un concerto rock che sta richiamando grandi intepreti con alcune migliaia di biglietti già venduti. Questi diventeranno decine di migliaia, poi più di centomila. Gli organizzatori, come noto, poi si vedranno costretti di buon grado ad aprire i cancelli, e gli spettatori dell’evento saranno più di cinquecentomila, una marea in continuo movimento.
Per il piccolo centro abitato dai soliti acidi conservatori quel concerto, almeno sulle prime, è davvero inaccettabile, non s’ha da fare. Dove li mettiamo quei pulciosi capelloni drogati? Ci distruggeranno tutto? Che schifo! Inaudito! Ma presto i quieti sonnacchiosi abitanti si renderanno conto che a suon di dollari si può sorvolare di buon grado su ogni fastidio. Così lo scalcinato motel di Elliot diviene il centro di comando dell’organizzazione dell’evento. I tempi stringono, precipitano: si montano tende, latrine, cabine telefoniche, si affitta e si vende di tutto (a carissimo prezzo). Ogni cosa, ogni azione, ogni energia rotola in un’unica direzione, verso quel grande prato, là dove si stà innalzando un palco mai visto. Elliot è attore protagonista coinvolto e un po’ istupidito dalla velocità degli avvenimenti che incalzano a un ritmo troppo elevato per la sua ragionata esistenza. Sembra non reggere. Che fare? Ma poi, in fondo… Via, non è così difficile! Lasciati andare Elliot! Tuffati anche tu, immergiti in quella fiumana continua, instancabile nel suo lento movimento in quell’unica via d’accesso, migliaia di giovani provenienti da tutto il Paese arrivano, continuano ad arrivare. Una moltitudine che avvolge e coinvolge innocentemente ogni pensiero, ogni azione.
Elliot vive quello che si configura quasi come un cammino iniziatico alla scoperta di se stesso, nell’accettazione della propria omosessualità, fino a lasciarsi completamente andare privo di inibizioni in un trip psichedelico liberatorio, forse una delle sequenze più belle del film. Attraverso gli occhi di Elliot vediamo muoversi lontano, nel buio della notte, il grande prato sommerso, invaso da una marea ondeggiante di figure nere accalcate intorno all’unico punto luminoso, un centro di luce, il palco del rock. E anche le stelle stanno a guardare.
Arriva l’alba del terzo giorno e tutto finisce. Il concerto termina. Si sbaracca. La fiumana degli hippies inverte lentamente il proprio corso verso casa o un po’ più in là. Nel grande prato restano ancora alcuni giovani che, disseminati qua e là, come ombre, raccolgono l’enorme quantità di immondizia. Alla fine non resta più nulla. Il grande prato è vuoto, ma Elliot, in fondo, ha trovato se stesso. Ora sa cosa deve fare. Vede la sua strada con occhi diversi. E la musica? Quella resterà per sempre. Tanto meglio per lo show business che si è appena inventato un nuovo modo di fare mercato con i sogni.
Ang Lee con il suo film rivisita Woodstock con un tocco leggero, disincantato, spesso rifacendosi all’arcinoto documentario del concerto montato da Michael Wadleigh, ma dal lato del backstage, senza la musica protagonista unica, con una sua personale lettura, senza cadere nell’agiografia, interpretando attraverso lo sguardo di un giovane il più grande evento di musica, di pace e di sogno, che come tutte le più belle cose rimarrà sospeso nel ricordo.
Dario Arpaio
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